mercoledì 30 aprile 2008

PETRA: LA CITTA' PERDUTA


Fu un viaggiatore anglo-svizzero, Johann Ludwig Burckhardt (1784 - 1817), che nel 1812, recandosi da Damasco al Cairo, sentì parlare di un'antica città stretta fra montagne impenetrabili e decise di andare a cercarla. Sapeva parlare arabo e così, col nome di Sheik Ibrahim e travestito da commerciante musulmano, raccontò di aver fatto voto ad Allah di sacrificare una capra al profeta Aronne presso la sua tomba in cima a Gebel Haroun, un'alta collina sovrastante la chiacchierata città. Con una simile storia convinse due indigeni a guidarlo attraverso il siq, un'angusta gola scura con pareti a picco, larga in certi punti poco più di un metro, che si snoda per quasi un chilometro e mezzo tra torreggianti blocchi di arenaria rossa decorati e intagliati. All'improvviso, il siq emerse dall'oscurità e a Burckhardt apparve il primo e più sensazionale monumento della città: il Khazneh, la Casa del Tesoro, una risplendente costruzione nabatea rosso cupo, che ancora oggi contrasta talmente con il paesaggio circostante da sembrare un pezzo di scenario di film abbandonato sul luogo. Là Burckhardt tracciò sui suoi ampi indumenti uno schizzo dell'edificio, poi compì una breve visita attorno alla città e, al cadere delle tenebre, sacrificò la capra ai piedi del tempio di Aronne prima di fare ritorno a Elji, a missione compiuta. I diari di Burckhardt sulla scoperta di Petra divennero pubblici solo cinque anni dopo la sua morte, nel 1822, suscitando grande clamore soprattutto in Inghilterra. Gli scavi hanno rivelato che gli Edomiti, i futuri nemici degli Israeliti, erano insediati qui già nel secondo millennio a.C. Nel 500 a.C. essi furono poi cacciati dai Nabatei, nomadi giunti dal sud, che in questo luogo eressero la loro capitale. Strategicamente situata al punto d'incrocio fra antiche arterie commerciali, Petra era gremita di mercanti che vi trasportavano i loro prodotti da Damasco e dall'Arabia, dal Mediterraneo e dall'Egitto. Servendosi di questa città praticamente inespugnabile come base, i Nabatei controllavano le rotte delle carovane e ammassavano ricchezze, dando vita a una fiorente civiltà. La roccia non costituì un problema per questa popolazione, tanto che la loro principale divinità, Dushara, era simboleggiata da massi di pietra e obelischi disseminati nel siq e un po' dappertutto nella città. Nel 63 a.C. i Romani tentarono di impadronirsi della città sferrando un assalto improvviso, ma essi riuscirono nel loro intento solo nel 106 d.C., quando Petra entrò a far parte, sembra senza opporre resistenza, della provincia romana d'Arabia. Nonostante la dinastia nabatea si fosse ormai estinta, la popolazione locale coesistette con quella romana per oltre un secolo. Nel IV secolo, quando Petra fu assorbita dall'Impero Bizantino, la Tomba dell'Urna, una delle più grandi di epoca nabatea, fu trasformata in chiesa e la città diventò sede di un episcopato. Ma a partire dal VII secolo, cioè dall'ascesa dei musulmani - se si eccettua la breve permanenza dei Crociati che innalzarono posti di guardia fortificati su due cime dei dintorni - la storia sul destino di Petra tace, fino al 1812.

martedì 29 aprile 2008

SUPERUOMO


Superuomo o oltreuomo è, nella filosofia di Nietzsche, l'uomo che, accettato il gioco di forze dell'essere, si fa capace di costruire un'esistenza colma di vita e di senso, attimo per attimo. E' figura della nuova moralità e dell'"affermazione della vita" che stanno "oltre" il nichilismo passivo, in fedeltà alla terra e allo spirito dionisiaco. Il superuomo sarà un essere libero, che agirà per realizzare se stesso. E' un essere che ama la vita, che non si vergogna dei propri sensi e vuole la gioia e la felicità. E' un essere "fedele alla terra", alla propria natura corporea e materiale, ai propri istinti e bisogni. La "fedeltà alla terra" è fedeltà alla vita e al vivere con pienezza, è esaltazione della salute e sanità del corpo, è altresì affermazione di una volontà creatrice che istituisce valori nuovi (ecco il vero significato della volontà di potenza). Non più "tu devi", ma "io voglio". Il superuomo è inoltre un essere socievole, rappresentato da Zarathustra che balla. Egli ha abbandonato ogni fede, ogni desiderio di certezza, per reggersi "sulle corde leggere di tutte le possibilità". La sua massima è: "Diventa ciò che sei". La libertà del superuomo è una ricchezza di possibilità diverse, da qui appunto la rinuncia ad ogni certezza assoluta e da qui anche la profondità tipica del superuomo, l'impossibilità di definire e giudicare la vita interiore, dalla quale non si attinge altro che la maschera ("Tutto ciò che è profondo, ama mascherarsi"). Il superuomo è il filosofo dell'avvenire; è un uomo senza patria né mèta per poter insegnare ad amare la ricchezza e la transitorietà del mondo. Con la sua "diversità di sguardo", egli cerca di rendere più degno il pensiero della vita, di dare al mondo un altro valore, un'altra verità: la verità non è qualcosa da riconoscere ma da creare. Con la libertà che nasce dall'abbandono delle vecchie illusioni e certezze, egli osa "spostare le pietre di confine" e aprire alla ricerca nuovi orizzonti.

lunedì 28 aprile 2008

ESISTENZIALISMO


La domanda centrale delle problematiche esistenzialiste è: “che cos’è l’essere?”. Essa può essere posta in altri modi: cos’è che determina la nostra esistenza? Perché c’è l’uomo invece del nulla? L’essere è un concetto unico da cui derivano tutte le sue manifestazioni (l’uomo, le cose, ecc.)? Heidegger, che per primo si pose compiutamente la domanda, intuì che diversamente da quanto affermato in tutta la storia della metafisica l’essere non va confuso con l’ente: in altre parole, l’essere non è Dio o le Idee platoniche, concetti ontologici, manifestazioni fisiche più che metafisiche. L’essere è un concetto e non può essere oggettivato. Il filosofo Gabriel Marcel pose l’accento sul fatto che l’esistenza non è un problema, bensì un mistero. Un problema è infatti un qualcosa che si pone davanti a noi come un ostacolo e di cui noi possiamo perlomeno delimitarne la portata e quindi comprenderlo in via di massima. L’esistenza non si pone di fronte a noi, è anche in noi stessi, ci penetra, e dunque noi siamo sia soggetti che oggetti della domanda “che cos’è l’essere?”. Heidegger spiegava questo concetto in questo modo: di ogni cosa noi possiamo dire cos’è categorizzandola, possiamo farla rientrare in un insieme (il cane è parte dell’insieme ‘animali’, per intenderci). Ma il concetto di essere non può venire categorizzato, perché esso stesso è l’insieme più ampio di tutti, di cui tutti gli altri insiemi fanno parte. Il fatto quindi che l’essere è sia in noi che fuori di noi non ci permette di dare mai una risposta definitiva al problema (o, meglio, al mistero). Questa questione è meglio marcata nelle riflessioni di Sartre, il quale alla domanda dà tre risposte: la prima, la più evidente, è che l’essere sia costituito dall’insieme di tutti gli esseri - cose e persone - presenti nel contesto spazio-temporale in cui viviamo; la seconda è che l’essere sia quello che Sartre chiama il per-sè, cioè la nostra coscienza, il nostro io che si pone come altro rispetto al resto del mondo, è soggetto e non oggetto; infine può essere in-sè, ossia l’essere nelle cose e nei fenomeni che ci appaiono, negli oggetti che ci circondano, a cui però diamo un senso noi, e quindi in qualche modo derivano da noi. Nessuna di queste tre è una risposta completa: l’essere, per Sartre, è come se si manifestasse in parte in ogni cosa ma si cela sempre nella sua compiutezza. Heidegger e Jaspers indicarono tuttavia una semi-risposta al quesito. Il fatto che noi ci poniamo la domanda “che cos’è l’essere?”, il fatto che andiamo alla ricerca di una risposta e indaghiamo la realtà nel cercarla è già di per sè una risposta. Si può dire, quindi, che si è, si esiste nel momento in cui ci si pone la domanda “perché esisto?”, “che cosa significa esistere?”. In questo modo, infatti, noi esistiamo perché il significato etimologico di esistere è ex-sistere, cioè in latino “essere fuori da”: in qualche modo cerchiamo di uscire fuori da noi stessi e guardare l’essere come qualcosa di altro, che non ci appartiene, lo analizziamo “fuori da noi” e questo è già un primo passo.

domenica 27 aprile 2008

EPISTEMOLOGIA


Possiamo considerare epistemologica quella attività speculativa che tende a scoprire ed indicare i criteri per distinguere le proposizioni scientifiche da quelle non scientifiche; l’epistemologia mira all’esplicitazione consapevole e sistematica del metodo e delle condizioni di validità delle asserzioni scientifiche. Ciò che ha permesso lo sviluppo di una Scienza e di un Metodo nel mondo occidentale è stata la concezione univoca e assoluta di Ragione che ha dominato la cultura dal ‘500 fino all’inizio del secolo scorso: alla razionalità esterna, del mondo inteso come un meccanismo immutabile, corrisponde la razionalità analitica e "matematica" del pensiero umano; l’oggettività dell’osservazione permette lo "svelamento" di leggi necessarie e universali e porta, attraverso il procedere rigoroso del metodo, all’infallibilità delle previsioni. I due pilastri su cui la Ragione ha eretto la Scienza sono impiantati su terreni alquanto distanti: da una parte il mondo reale, quello dell’esperienza e dell’osservazione, governato dal principio di induzione; dall’altra il mondo dell’astrazione, quello della matematica e della logica, governato dal principio di deduzione. Alla fine dell’800 sia l’empirismo che il formalismo cominciano ad incrinarsi, minando alla base l’intero impianto scientifico fino ad allora utilizzato; parallelamente, la fisica conosce cambiamenti tali da metterne in dubbio il carattere di "esattezza", paradigmatico per le altre discipline; inevitabilmente, la riflessione sui fondamenti della scienza acquista sempre maggior importanza poiché la sua stessa legittimità non può più essere data per scontata, ma discussa e costruita.

sabato 26 aprile 2008

ZOROASTRISMO


Il profeta Zoroastro o Zarathustra, originario della Media, riformò il Mazdeismo. Egli andò via dal suo paese e si rifugiò in Iran Orientale ove trovò numerosi proseliti, tra cui viene annoverato il principe Histape, padre di Dario. La popolazione locale era continuamente esposta al pericolo delle invasioni delle popolazioni nomadi, per cui era ben disposta ad accettare una nuova religione basata sulla redenzione. La morale zoroastriana si basa sulla triade "buon pensiero, buone parole, buone opere". Secondo Zoroastro il mondo era retto da due principi: il BENE ed il MALE. Il primo si identifica in Ahuramazdah, aiutato da altre divinità ispirate alle forze della natura, il secondo nello spirito malefico Ahriman. I due spiriti hanno ingaggiato una lotta, interpretata come la lotta tra il pensiero e l’intelligenza, terminata con la vittoria dello spirito buono. Siamo di fronte ad un "monoteismo imperfetto", in quanto è presente solo il bene. Anche l’umanità partecipa a questa lotta, in quanto è divisa tra uomini retti e pii e uomini cattivi ed atei, che seguono due divinità diverse. Dopo la morte, ognuno verrà giudicato: i buoni andranno in paradiso, i cattivi subiranno una lunga pena. Vi sarà poi un giudizio universale, secondo il quale tutti subiranno la prova del fuoco. L’uomo deve evitare e combattere l’eretico, deve essere buono con gli animali, curarli e trattarli bene. Un buon principe combatte per la religione, difende il popolo, nutre il povero, protegge il debole. E’ considerato cattivo chi è un pessimo giudice, l’uomo che abbandona il campo e colui che opprime gli altri. I sacrifici di sangue sono vietati, perché gli animali sono venerati. La bevanda inebriante haoma è anche essa vietata. I morti non possono essere né sepolti, né bruciati, né immersi per non sporcare i tre elementi sacri che sono la terra, l’acqua ed il fuoco. I cadaveri vengono esposti sulle montagne o su torri innalzate a questo scopo: le ossa scarnificate si devono poi racchiudere in ossari che vengono deposti in tombe in muratura o scavate nella roccia. Questa religione ha molti punti in comune con il buddhismo, nato in India nello stesso periodo. Entrambi i movimenti nascono dalla protesta contro le pratiche crudeli ed i riti sanguinari delle antiche religioni ariane. Il primo era frutto della classe aristocratica, il secondo era un’espressione del popolo. Per questo motivo il buddhismo si è diffuso molto di più dello zoroastrismo. Tuttavia quest’ultima religione venne venerata presso le corti imperiali persiane e spesso difesa come religione di stato.

venerdì 25 aprile 2008

CATTIVITA' AVIGNONESE


La Cattività avignonese (dal latino "captivus" prigioniero) è un periodo della storia della Chiesa (1309 - 1377) in cui la sede papale si spostò da Roma ad Avignone attraverso Anagni. Questo fu dovuto a contrasti tra Papa Bonifacio VIII e il Re di Francia, Filippo il Bello e dai cardinali: la maggior parte veniva dalla Francia ed il Papa era come circondato. Il dissidio fra il Papa ed il re francese nacque quando Filippo pretese dal clero il pagamento delle tasse al regno come chiunque altro: papa Bonifacio si oppose fermamente. Dopo un lungo periodo di scontri, il Papa cedette e consentì temporaneamente al clero francese di pagare le tasse ma quando Filippo volle imporre la sua giurisdizione sui vescovi francesi, Bonifacio non glielo consentì e i contrasti ricominciarono. Il culmine dello scontro si ebbe quando Filippo fece giudicare Bonifacio eretico e simoniaco da un concilio di giuristi. Una forza armata fu inviata ad arrestare il Papa che si trovava ad Anagni ma un'insurrezione popolare fermò i francesi. Tuttavia questi accadimenti non bastarono a fermare Sciarra Colonna, un nobile romano nemico del pontefice, dallo schiaffeggiare quest'ultimo. Bonifacio morì alcuni giorni dopo ed il conclave elesse Nicolò Bocassino, domenicano di Treviso, che assunse il nome di Benedetto XI. Nicolò tento dì risanare i conflitti tra le parti ma dopo soli 11 mesi di pontificato morì, probabilmente per aver mangiato fichi avvelenati, e al soglio pontificio fu eletto un papa francese, probabilmente per il timore di altre azioni militari di Filippo. Il nuovo papa fu l'arcivescovo di Bordeaux, Bertand de Got, che prese il nome di Clemente V e che spostò la sede papale da Roma ad Avignone. Era il 1309: dopo più di mille anni Roma perdeva il suo ruolo di capitale del cristianesimo. Solo nel 1377 la sede del Papato fu nuovamente spostata a Roma, per opera di Gregorio XI, sollecitato da santa Caterina da Siena e dal re di Francia, che aveva cominciato la guerra dei cent'anni, e quindi cercava di preservare più territorio possibile.

giovedì 24 aprile 2008

DE BREVITATE VITAE


La maggior parte dei mortali, o Paolino, si lagna per la cattiveria della natura, perché siamo messi al mondo per un esiguo periodo di tempo, perché questi periodi di tempo a noi concessi trascorrono così velocemente, così in fretta che, tranne pochissimi, la vita abbandoni gli altri nello stesso sorgere della vita. Né di tale calamità, comune a tutti, come credono, si lamentò solo la folla e il dissennato popolino; questo stato d'animo suscitò le lamentele anche di personaggi famosi. Da qui deriva la famosa esclamazione del più illustre dei medici, che la vita è breve, l'arte lunga; di qui la contesa, poco decorosa per un saggio, dell'esigente Aristotele con la natura delle cose, perché essa è stata tanto benevola nei confronti degli animali, che possono vivere cinque o dieci generazioni, ed invece ha concesso un tempo tanto più breve all'uomo, nato a tante e così grandi cose. Noi non disponiamo di poco tempo, ma ne abbiamo perduto molto. La vita è lunga abbastanza e ci è stata data con larghezza per la realizzazione delle più grandi imprese, se fosse impiegata tutta con diligenza; ma quando essa trascorre nello spreco e nell'indifferenza, quando non viene spesa per nulla di buono, spinti alla fine dall'estrema necessità, ci accorgiamo che essa è passata e non ci siamo accorti del suo trascorrere. È così: non riceviamo una vita breve, ma l'abbiamo resa noi, e non siamo poveri di essa, ma prodighi. Come sontuose e regali ricchezze, quando siano giunte ad un cattivo padrone, vengono dissipate in un attimo, ma, benché modeste, se vengono affidate ad un buon custode, si incrementano con l'investimento, così la nostra vita molto si estende per chi sa bene gestirla. (Seneca)

mercoledì 23 aprile 2008

LE RUNE


Le Rune sono Archetipi, potenti raffigurazioni naturalistiche delle forze che regolano l’Universo. Ogni Runa possiede un profondo significato che può venire usato sia per interpretare le influenze in atto, esterne ed interne a noi, che per invocare un potere della natura o sintonizzarsi ad esso. Nelle culture popolari le rune sono sempre state viste come detentrici di mistiche proprietà e perfino la supposta etimologia della parola runa dal germanico "raunen" che significa "sussurrare", lega al mistero e al segreto questi simboli. Le Rune, che vengono diffusamente chiamate Rune Celtiche, sono i caratteri di antichi degli alfabeti nordici, per cui è appropiato chiamarle Rune Nordiche anche se poi si sono evolute attraverso la spiritualità celtica (e i "percorsi sciamanici"). Ci sono varie versioni degli alfabeti runici. Ognuna ha differenze in nomi, in simboli, in significati esoterici e usi magici. L'alfabeto runico attualmente più usato nella nosta cultura è noto come Futhark, nome derivato dalle prime sei lettere (f, u, th, a, r, k ), ed è composto da 24 lettere (l'ordine è diverso dal nostro alfabeto). Le 24 rune vengono tradizionalmente suddivise in tre serie o famiglie dette Aett (plurale Aettir), di 8 rune ciascuna che prendono il nome sia dalla prima lettera che dalla divinità che la presiede.

martedì 22 aprile 2008

IL MITO DI ER



Il mito di Er, come il racconto sul giudizio dei morti del Gorgia, è posto al termine della Repubblica di Platone.
Questa collocazione gli garantisce, di per sé, un grande risalto: un congedo mitico riesce efficacemente ad accompagnare il lettore fuori dal testo, nel mondo della prassi e della comunicazione orale, con qualcosa che può facilmente ricordare. Nello stesso tempo, questo racconto memorabile è anche un punto di partenza per una riflessione personale: è la conclusione, aperta, di un dialogo filosofico, che serve a ripensare criticamente, all'indietro, i suoi temi. Il ripensamento richiede un coinvolgimento personale consapevole: un mito inserito in una struttura di ragionamenti è qualcosa di enigmatico, di inconcludente e di indecidibile, che chiama il lettore a far lavorare creativamente il proprio logos. Socrate sottolinea il carattere quasi filosofico - e non poetico - del mito, quando, presentandolo, precisa che non si tratta di un apologo di Alcinoo, cioè di una storia come quelle narrate da Odisseo, creazione omerica notoriamente mentitrice, al re dei Feaci. Qualcosa di simile Socrate aveva fatto anche a proposito del giudizio dei morti, quando l'aveva introdotto come un logos con l'apparenza di un mythos. Tuttavia, fra il racconto di Er e la narrazione del giudizio dei morti esiste una importante differenza, per quanto entrambi siano storie sui morti narrate da un morto: Er è uno che ritorna dall'oltretomba, in modo tale che la sua morte non è una semplice contrapposizione alla vita, ma la possibilità di una nuova vita, diversa e migliore. Socrate è morto, ma il suo pensiero non rivive in un'anti-città, come nel Gorgia, bensì qui e ora, se è possibile continuare a discutere e costruirci vite diverse e forse migliori. Er è un soldato valoroso, proveniente dalla Panfilia (una regione mediterranea dell'Asia Minore), che, caduto in battaglia, dopo dieci giorni viene ritrovato intatto fra i cadaveri putrefatti. Dopo altri due giorni, messo sul rogo per essere cremato, ritorna in vita, con la memoria del mondo dell'aldilà, e narra qualcosa di simile ad una esperienza di pre-morte, mediata nelle forme della cultura greca.

lunedì 21 aprile 2008

I DRUIDI


Le notizie che abbiamo sui druidi differiscono a seconda degli autori e delle epoche, ma più che contraddirsi esse si completano.
I druidi erano essenzialmente dei sacerdoti che presiedevano alle cerimonie del culto e soprattutto celebravano i sacrifici. Scandivano il tempo secondo avitici rituali. Tutta la concezione del tempo, per i Celti, era regolata sulle fasi della luna, patrona della fecondità della terra e delle donne, basata su quattro grandi eventi stagionali. Tutte le conoscenze e i segreti erano appannaggio dei druidi. E' possibile che all'inizio, essi formassero un'unica classe ma poi la loro organizzazione si sviluppò, divenne più complessa e perciò si articolò in classi diverse. Una di queste riuniva in Gallia i Vates, specializzati in sociologia, in storia e in scienze naturali, per finire, vi furono ai margini della collettività druidica, i Bardes, sorta di poeti-cantastorie ufficiali della società celtica e nello stesso tempo, cronisti. Infatti, in un'epoca in cui non esistevano i giornali, gli avvenimenti erano divulgati da interminabili cantilene che il popolo ascoltava con passione.Nella gerarchia irlandese, invece, a fianco dei druidi, compaiono i Filid, che svolgevano in qualche modo le funzioni scientifiche e poetiche ed erano quanto a dignità uguali ai druidi, nonché disposti secondo una rigida gerarchia. Non a caso la parola 'druido' significa 'molto saggio'. Gli antichi avevano sentito parlare di loro fin dal IV sec. a.C. e avevano un profondo rispetto per le loro conoscenze e la loro effettiva saggezza.Tuttavia, non si ha alcun testo che riassuma l'insegnamento dei druidi, ma sappiamo che, senza essere esoterico o segreto, esso era riservato agli allievi delle loro scuole, specie relative a seminari agresti, lontani dall'agitazione del mondo e frequentati soprattutto dai figli dell'aristocrazia. Com'è ben noto, la quercia per i druidi era particolarmente sacra, poiché vi si raccoglieva il vischio. I boschi, più ancora dei laghi e dei fiumi, erano luoghi di presenza divina. Il bosco era a tal punto parte integrante della cultura dei Celti che per loro non era possibile dissociarlo dagli sforzi per abbattere il nemico. Per i Romani abbattere i santuari forestali dei Celti era importante quanto sconfiggerne le truppe sul campo di battaglia. La visione della vita che i Celti acquisivano per mezzo dell'insegnamento druidico, l'assenza di paura per la morte e dell'aldilà, non si spiegherebbero senza una credenza radicata nell'immortalità dell'anima e nella possibilità per l'uomo di conoscere le forme di esistenza più diverse. Infatti il loro amore per la vita in tutte le sue manifestazioni, la loro apertura verso tutte le esperienze, rivela in loro il senso dell'unità del cosmo, più di duemila anni prima che la scienza moderna, con tutte le sue tecniche, avesse solo cominciato a supporla. I druidi rappresentavano il cardine dell'unità dell'impero spirituale celtico, i promulgatori dell'armonia e della sapienza, i signori degli elementi (acqua, fuoco, vento, terra). Fu proprio per questo che i conquistatori romani arrivarono a sopprimerne la casta e proibire le loro riunioni e il culto, per colpire al cuore la società celtica.

domenica 20 aprile 2008

UN FILOSOFO

Un filosofo è un uomo che costantemente vive, vede, sente, intuisce, spera, sogna cose straordinarie; che viene colpito dai suoi propri pensieri come se venissero dall'esterno, da sopra e da sotto, come dalla sua specie di avvenimenti e di fulmini; che forse è lui stesso un temporale gravido di nuovi fulmini; un uomo fatale, intorno al quale sempre rimbomba e rumoreggia e si spalancano abissi e aleggia un'aria sinistra. Un filosofo: ahimè, un essere che spesso fugge da se stesso, ha paura di se stesso - ma che è troppo curioso per non 'tornare a se stesso' ogni volta. (F. Nietzsche)

sabato 19 aprile 2008

LA CRISI DELLA POLIS



Dopo Alessandro Magno, l’orizzonte culturale della polis greca, che aveva costituito il punto di riferimento per l’età classica, va completamente in crisi. L’uomo greco, che per secoli ha visto e compreso se stesso principalmente come “cittadino” si trova a vivere improvvisamente in un’epoca in cui la dimensione politica gli viene “espropriata”, ed egli deve ritrovare la propria collocazione rispetto alla tavola dei nuovi valori emergenti. La crisi della “polis” distruggeva quel valore fondamentale della vita spirituale della Grecia classica, che costituiva il punto di riferimento dell’agire morale, e che Platone nella sua “Repubblica” e Aristotele nella sua “Politica” avevano non solo teorizzato, ma perfino sublimato e ipostatizzato, facendo della polis non solo una forma storica, ma la forma ideale di Stato perfetto. Smarrito l’orizzonte della polis “a misura d’uomo” non restano aperte che due strade: rinchiudersi nella propria individualità o aprirsi ad una dimensione universale e cosmopolita. L’uomo deve cioè ritrovare in se stesso le ragioni della propria esistenza, costruirsi la via di una felicità interiore che non venga minimamente toccata dai drammatici eventi storici che sta vivendo. Ciò che egli ora chiede ai “sapienti” della sua epoca, non è tanto che gli spieghino “come sia fatto” il cosmo, o quale sia lo stato ideale; ha bisogno di una “via per la felicità”, di una saggezza pratica che gli consenta di ritrovare dentro di sé quell’equilibrio che, nella realtà che lo circonda, vede ormai del tutto compromesso. Veniva così assegnato alla filosofia un “nuovo compito”: la filosofia è vista come la “medicina” dell’anima, soluzione pratica e non solo teorica al problema dell’esistenza. È questa la ragione per cui, nell’epicureismo come anche nello stoicismo, pur continuando a sussistere una gnoseologia ed un’ontologia pensate quale sostegno dell’etica, è su quest’ultima che si appunta la decisiva attenzione dei filosofi, e l’eventuale aporeticità delle dottrine fisiche o logiche non compromette la “risonanza” psicologica dei principi di saggezza pratica che vengono proposti. Concludendo non si può tacere un altro fattore determinante per la formazione delle filosofie ellenistiche: il crollo dei pregiudizi razzistici della naturale differenza fra Greci e Barbari. Anche il pregiudizio della schiavitù verrà contestato dai filosofi, almeno a livello teorico. Epicuro non solo tratterà familiarmente con gli schiavi, ma li vorrà partecipi nel suo insegnamento; la storia dello stoicismo terminerà in modo emblematico con le due figure di Epitteto, uno schiavo liberato, e Marco Aurelio, un imperatore.

venerdì 18 aprile 2008

SCINTOISMO


Lo Shinto, che non riconosce un Dio supremo, è un culto politeistico della natura e degli antenati. Già all'origine della religione giapponese, s'incontrano un gran numero di divinità della natura a cui si aggiungono, in epoca più tarda, le divinità terrestri, locali e familiari. Si parla di un numero di divinità che va da 80 a 800 mila; da ciò deriva la definizione del Giappone Shinkoku che vuol dire «paese degli dei». Le divinità si definiscono col nome di Kami che significa «il superiore, il più alto», tradotto in cinese con il simbolo «shên» (essere spirituale, divino, soprannaturale).Anche i defunti della famiglia, ed in particolare gli antenati, sono considerati esseri superiori, pure se un gradino al di sotto degli antichi dei e degli antenati imperiali.Il giapponese, nella vita quotidiana, si sente assistito dai suoi antenati, che proteggono e benedicono la sua casa e l'arricchiscono di figli. Le fonti dello scintoismo I testi sacri dello scintoismo, raccolti e trascritti solo in epoca buddista, sono tre raccolte mitologiche riunite sotto il titolo di Sam-bu-han-sho (i tre libri principali): il KU-JI-KI (storia degli avvenimenti antichissimi fino al 620 a.C.), il KO-JI-KI (storia dell'antichità che va fino al 712 a.C.) e il NIHON-GI (annali giapponesi fino al 720 d.C.).

giovedì 17 aprile 2008

SUFI



La parola "Sufi" ha una triplice etimologia:
1) gli "ahl us-Suffa" erano "quelli della veranda", i Compagni del Profeta Muhammad che avevano lasciato tutto pur di vivere quanto più vicino al Profeta. Risiedevano sotto una veranda fuori della casa di Aisha. Quando il Profeta usciva erano i primi ad incontrarlo, quando riceveva un dono lo divideva con loro.
Il Profeta mostrò per loro i suoi poteri miracolosi facendo moltiplicare il contenuto di un bicchiere di latte che fu sufficiente per tutti, vivevano senza possedere nulla ed in continui digiuni e devozioni.
2) "Suf" vuol dire lana. I Sufi dei primi secoli erano asceti che vivevano nei deserti vestiti di una lunga tunica di lana, loro unica proprietà, insieme al secchiello per l'acqua. Questa tunica era ovviamente logora e rattoppata. Queste toppe, cento come i nomi di Allah menzionati nel Corano, in epoca più tarda divennero colorate, fino a diventare il "costume" tipico del "Dervish" (poverello) del medioevo. Se vi é capitato di vedere nelle nostre strade i Muridi Baifal senegalesi potete capire come questa tradizione sia ancora viva.
3)"Safa" vuol dire purezza: i Sufi sono i Puri. Per questo se chiedete a uno se é un Sufi, non sentirete mai dire di sì, perché chi lo é, per modestia non lo dice. I Sufi quindi sono parte integrante della Storia delle religioni, nati al tempo del Profeta che era il continuatore del messaggio di Gesù, Salomone, Davide, Mosé, Abramo, Noè, Idris (Ermete trismegisto), Adamo, ecc. Fino al secolo scorso, prima dell'avvento del pensiero modernista e riformatore, "'Ilm ut-Tasawwuf" (Scienza del Sufismo) era materia di insegnamento nelle università islamiche. Gli Imam, come tutti del resto, erano socialmente invitati a sottomettersi non solo allo studio di libri, ma anche alla pratica della Scienza della Purificazione dei Cuori, per raggiungere le Virtù dell'Eccellenza (Ihsan) nelle mani di uno Shaikh Sufi.

mercoledì 16 aprile 2008

LA CITTA' FILOSOFICA



L'astensione del filosofo dalla vita pubblica, prosegue Socrate, è dovuta al fatto che le forme di politeia esistenti, a causa delle loro deficienze culturali, non sono un terreno fertile per la filosofia. Lo potrebbe essere l'ottima polis?
Anche qui, sottolinea Socrate, la cosa è tutt'altro che semplice, perché ci deve essere sempre nella città qualcosa che mantenga lo stesso logos avuto dal legislatore nel porre le leggi. Una città filosofica, in altri termini, non è semplicemente una città fondata in modo filosofico, proprio perché in essa deve essere mantenuto lo stesso logos con il quale era stata costruita. Il logos è la parola o il discorso con il quale viene espresso un pensiero: mantenere il logos, dunque, è qualcosa di più che conservare pedissequamente un modello. Il discorso filosofico nel quale è nata la città costruita en logois è qualcosa che deve continuare; qualcosa che rimane tale solo nella misura in cui continua. Ma questo è tutt'altro che scontato. Se ora non accade che i filosofi governino, ciò può essere accaduto nell'infinito (apeiron) tempo passato, o potrà accadere in futuro, o sta succedendo ora in qualche remoto paese barbaro. E' sufficiente, in altri termini, ampliare la prospettiva dal qui ed ora ad un tempo e ad un mondo senza limiti per rendersi conto che la realizzabilità del modello è certamente difficile - anche a causa della corruzione che si accompagna al potere - ma non impossibile. Il carattere indefinito dell'esperienza milita a favore della speranza utopica e contro il realismo, non appena si ampli l'orizzonte spaziale e temporale del nostro sguardo. (Platone La Repubblica)

martedì 15 aprile 2008

LE SETTE MERAVIGLIE ANTICHE



Le Sette meraviglie del mondo sono le strutture architettoniche, sculture ed edifici che i Greci ed i Romani ritennero essere le più belle e straordinarie opere dell'intera umanità. Anche se erano stati compilati altri elenchi più antichi, la lista canonica deve risalire al III secolo a.C., poiché comprende il Faro di Alessandria, costruito tra il 300 a.C. e il 280 a.C., ed il Colosso di Rodi, crollato per un terremoto nel 226 a.C. Tra i testi conservati il più antico che nomina le sette meraviglie è una poesia di Antipatro di Sidone (Anthologia graeca, IX, 58) scritta intorno al 140 a.C. Alle sette meraviglie è dedicata l'opera intitolata De septem orbis spectaculis, erroneamente attribuita a Filone di Bisanzio ma molto più tarda (probabilmente del V secolo d.C.). Sono situate in Egitto (2), Grecia (2), Turchia (2) e Mesopotamia (nell'attuale Iraq). Tutte costruite più di 2000 anni fa, furono contemporaneamente visibili solo nel periodo fra il 250 a.C. ed il 226 a.C.; successivamente andarono ad una ad una distrutte per cause diverse; solo l'imponente Piramide di Cheope sopravvive ancora oggi. Vengono anche chiamate le sette meraviglie classiche oppure le sette meraviglie antiche e sono: I Giardini pensili di Babilonia, probabilmente la più antica fra le sette meraviglie. Si racconta che la regina Semiramide vi raccogliesse rose fresche in ogni stagione. Il Colosso di Rodi, una enorme statua bronzea situata nell'omonima isola greca. Il Mausoleo di Alicarnasso, una monumentale tomba dove riposa il satrapo Mausolo, situata ad Alicarnasso, città greca. Il Tempio di Artemide ad Efeso, nell'odierna Turchia. Il Faro di Alessandria in Egitto, che una volta rischiarava la via ai mercanti che si approssimavano al porto. La statua di Zeus ad Olimpia, grandiosa testimonianza di arte religiosa. La Piramide di Cheope a Giza, immensa dimora di riposo eterno del faraone, glorificazione delle sue imprese in vita.

lunedì 14 aprile 2008

LA POLIS GRECA



Con il termine polis (in greco πόλις,"città") si indica una città stato della Grecia antica. Le poleis erano piccole comunità autarchiche, rette da governi autonomi; una sorta di piccoli stati indipendenti l'uno dall'altro. Il carattere autonomo delle poleis deriverebbe dalla conformazione geografica del territorio greco, che impediva facili scambi tra le varie realtà urbane poiché prevalentemente montuoso. Spesso, le varie poleis erano in lotta tra loro per l'egemonia del territorio greco; ne è un esempio la celebre rivalità fra Sparta e Atene. Apparsa intorno all'VIII secolo a.C., la polis fu il vero e proprio centro politico, economico e militare del mondo greco. Ogni polis era organizzata autonomamente, secondo le proprie leggi e le proprie tradizioni. Vi furono esempi di poleis dal regime politico democratico, come Atene, e oligarchico, come Sparta. L'indipendenza e la mancata unità delle poleis furono le cause principali della loro caduta. Il re macedone Filippo II e suo figlio Alessandro Magno infatti sfruttarono a loro vantaggio le lotte interne fra le città stato per dominarle e sottometterle. Anche in Italia meridionale, nella Magna Grecia, le poleis caddero sotto il dominio di Roma tra il IV secolo a.C. e il III secolo a.C. proprio per le lotte interne e la loro disunione.
La polis comprendeva sia il centro urbano, cinto da mura e costituito dall'acropoli (ἀκροπὸλις), dall' La polis fu un modello di struttura tipicamente e solamente greca che prevedeva l'attiva partecipazione degli abitanti liberi alla vita politica. In contrapposizione alle altre città-stato antiche, la peculiarità della polis non era tanto la forma di governo democratica od oligarchica, ma l'isonomia: il fatto che tutti i cittadini liberi soggiacessero alle stesse norme di diritto.

domenica 13 aprile 2008

L'UOMO CITTADINO DELL'UNIVERSO



Se è vero quel che dicono i filosofi sulla parentela tra Dio e gli uomini, che cosa resta da fare a costoro se non seguire l'esempio di Socrate e cioè non rispondere mai a chi vuole sapere la loro città: "Sono cittadino d'Atene o cittadino di Corinto", ma "cittadino dell'universo"? Perché dici di essere ateniese e non semplicemente di quell'angolo di terra in cui fu gettato il tuo povero corpo al momento della nascita? Ovvero è chiaro che derivi da un principio superiore, che abbraccia non solo quell'angolo di terra, ma anche l'intera tua casa, e, in una parola, il paese dove si è perpetuata fino a te la stirpe dei tuoi antenati, e di qui, se mai, ti chiami ateniese o corinzio? Chi dunque ha penetrato l'organizzazione dell'universo e ha capito che "di tutte le cose la più grande, la più importante, la più universale è la società formata dagli uomini e da Dio, e che da lui le forze generatrici scendono non solo fino a mio padre e a mio nonno, ma a tutto ciò che sulla terra nasce e cresce, specialmente agli esseri ragionevoli, giacché essi soli per natura partecipano alla comunione divina, essendo legati a Dio per la ragione", perché non dirà di essere cittadino dell'universo? (Epitteto)

sabato 12 aprile 2008

IL CORANO



Il Corano, l'ultima parola rivelata di Dio, è la fonte primaria della fede e della pratica di ogni musulmano.
Si occupa di tutto ciò che concerne l'essere umano: saggezza, dottrina, adorazione, transazioni, legge ecc., ma il tema di base è la relazione tra Dio e le Sue creature. Allo stesso tempo, fornisce le linee guida e gli insegnamenti dettagliati per la vita sociale, per i comportamenti umani e il sistema economico. Si noti che il Corano fu rivelato a Mohammed solo in arabo. Quindi, ogni traduzione coranica, sia in inglese che in altre lingue, non è il Corano, non è una sua versione, ma piuttosto solo una traduzione del suo significato. Il Corano esiste solo in arabo nel quale fu rivelato.

venerdì 11 aprile 2008

IL FILOSOFO DI NIETZSCHE



Sono sempre piú indotto a credere che il filosofo, come uomo necessario del domani e del dopodomani, si sia trovato in ogni tempo in contraddizione con il suo oggi: il suo nemico fu ogni volta l’ideale dell’oggi. Sinora tutti questi eccezionali fautori dell’uomo, ai quali si dà il nome di filosofi e che raramente si sentirono amici della verità, ma piuttosto sgradevoli giullari e pericolosi punti interrogativi – hanno trovato il loro compito, il loro duro, non voluto, inevitabile compito, e infine la grandezza del loro compito, nel costituire essi stessi la cattiva coscienza del loro tempo. Vivisezionando col coltello proprio il cuore delle virtú del tempo, tradirono quel che era il loro strano segreto: conoscere una nuova grandezza dell’uomo, una nuova strada non ancora mai battuta per il suo innalzamento. Essi svelarono ogni volta quanta ipocrisia e infingardaggine, quanto lasciarsi andare e lasciarsi cadere, quanta menzogna si nascondesse sotto il tipo maggiormente venerato della moralità loro contemporanea, quanta virtú fosse sopravvissuta a se stessa; ogni volta essi dissero: “Dobbiamo arrivare e partire da quel luogo, che oggi è per voi meno di ogni altro familiare”. Dinanzi a un mondo delle “idee moderne”, che vorrebbe confinare ognuno in un angolo e in una “specializzazione”, un filosofo, ove mai oggi un filosofo potesse esistere, sarebbe costretto a porre la grandezza dell’uomo, l’idea di “grandezza” proprio nella sua vastità e multiformità, nel suo essere intero in molte cose: determinerebbe persino il valore e il rango, a seconda di quali e quante cose uno sia in grado di sopportare e di assumere sopra di sé, a seconda del limite fino al quale uno può tendere la sua responsabilità. Oggigiorno il gusto e la virtú dell’epoca affievoliscono e assottigliano il volere, nulla è tanto in armonia con i tempi quanto l’estenuazione della volontà.
Oggi è tutto l’opposto qui in Europa, dove soltanto l’animale da armento perviene agli onori e onori distribuisce, dove l’“uguaglianza dei diritti” si potrebbe anche troppo facilmente trasformare nell’uguaglianza dei torti: intendo dire in una comune guerriglia contro tutto quanto di raro, d’inconsueto, di privilegiato appartiene all’uomo superiore, all’anima superiore, alla superiore responsabilità, alla pienezza creativa della potenza e all’arte del signoreggiare – oggigiorno si addice alla nozione di “grandezza” l’essere nobili, il voler essere per se stessi, il poter essere diversi, il restarsene isolati e la necessità di vivere a modo proprio; il filosofo divinerà qualcosa del suo proprio ideale, quando stabilirà “Piú grande tra tutti sarà colui che può essere il piú solitario, il piú nascosto, il piú diverso, l’uomo al di là del bene e del male, il signore delle proprie virtú, ricco quant’altri mai di volontà; questo appunto deve chiamarsi grandezza: poter essere tanto multiforme quanto intero, tanto esteso quanto colmo”. E ancora una volta domandiamo: è oggi – possibile la grandezza?

giovedì 10 aprile 2008

ALCHIMIA



Il termine alchimia deriva dall'arabo al-kimiya o al-khimiya che significa;
"fondere", "colare insieme","saldare", "allegare".
Un'altra etimologia collega la parola con Al Kemi, che significa "l'arte egizia" dato che gli antichi Egiziani chiamavano la loro terra Kemi ed erano considerati potenti maghi in tutto il mondo antico. Il vocabolo potrebbe anche derivare da kim-iya, termine cinese che significa "succo per fare l'oro".
L'alchimia è un'antica pratica protoscientifica che combina elementi di chimica, fisica, astrologia, arte, semiotica, metallurgia, medicina, misticismo e religione. Vi sono tre grandi obiettivi che si propongono gli alchimisti. Il più importante traguardo dell'alchimia è la trasmutazione dei metalli in oro o argento. In secondo luogo, essi tentarono di creare la panacea universale, un rimedio che dovrebbe curare tutte le malattie, oltre a saper generare e prolungare indefinitamente la vita. La pietra filosofale era la chiave per questi obiettivi. Questa sostanza di tipo etereo (che potrebbe essere una polvere, un liquido o una pietra) avrebbe avuto il potere di rendere possibili entrambe. Il terzo obiettivo consisteva nel dare l'onniscienza. Il pensiero alchemico è considerato da molti il precursore della chimica moderna prima della formulazione del metodo scientifico. L'alchimia, oltre ad essere una disciplina fisica e chimica, implicava un'esperienza di crescita ed un processo di liberazione e di salvezza dell'artefice dell'esperimento. In quest'ottica la scienza alchemica veniva sacralizzata e ricondotta ad un tipo di conoscenza metafisica e filosofica, assumendo connotati mistici e soteriologici, cosicché i processi e i simboli alchemici possiedono sovente un significato interiore relativo allo sviluppo spirituale in connessione con quello prettamente materiale della trasformazione fisica.

mercoledì 9 aprile 2008

WALT WHITMAN



O Capitano! Mio Capitano! Il nostro viaggio tremendo è terminato, la nave ha superato ogni ostacolo, l'ambìto premio è conquistato,vicino è il porto, odo le campane, tutto il popolo esulta, occhi seguono l'invitto scafo, la nave arcigna e intrepida; ma o cuore! Cuore! Cuore!
O gocce rosse di sangue, là sul ponte dove giace il Capitano, caduto, gelido, morto.
O Capitano! Mio Capitano! Risorgi, odi le campane; risorgo - per te è issata la bandiera - per te squillano le trombe, per te fiori e ghirlande ornate di nastri - per te le coste affollate, te invoca la massa ondeggiante, a te volgono i volti ansiosi; ecco Capitano! O amato padre!
Questo braccio sotto il tuo capo! E' solo un sogno che sul ponte sei caduto, gelido, morto.
Non risponde il mio Capitano, le sue labbra sono pallide e immobili, non sente il padre il mio braccio, non ha più energia né volontà, la nave è all'ancora sana e salva, il suo viaggio concluso, finito, la nave vittoriosa è tornata dal viaggio tremendo, la meta è raggiunta; esultate coste, suonate campane!
Mentre io con funebre passo percorro il ponte dove giace il mio Capitano, caduto, gelido, morto.

martedì 8 aprile 2008

EPICURO: LETTERA SULLA FELICITA'



La lettera sulla felicità di Epicuro è un farmaco contro l’angoscia: “Chi sostiene che non è ancora giunto il momento di dedicarsi alla conoscenza della felicità, o che ormai è troppo tardi, è come se andasse dicendo che non è ancora il momento di essere felice, o che ormai è passata l’età. Ecco che da giovani come da vecchi è giusto che noi ci dedichiamo a conoscere la felicità. Per sentirci sempre giovani quando saremo avanti con gli anni in virtù del grato ricordo della felicità avuta in passato, e da giovani, irrobustiti in essa, per prepararci a non temere l’avvenire”.La felicità è l’essenza del divino: “Prima di tutto considera l’essenza del divino materia eterna e felice, come rettamente suggerisce la nozione di divinità che ci è innata. Non attribuire alla divinità niente che sia diverso dal sempre vivente o contrario a tutto ciò che è felice, vedi sempre in essa lo stato eterno congiunto alla felicità”. La morte non va fuggita né invocata: “La morte, il più atroce dunque di tutti i mali, non esiste per noi. Quando noi viviamo la morte non c’è, quando c’è lei non ci siamo noi. Non è nulla né per i vivi né per i morti. Per i vivi non c’è, i morti non sono più. Invece la gente ora fugge la morte come il peggior male, ora la invoca come requie ai mali che vive”.I desideri vanno esaminati e non anzitutto esauditi: “Una ferma conoscenza dei desideri fa ricondurre ogni scelta o rifiuto al benessere del corpo e alla perfetta serenità dell’animo, perché questo è il compito della vita felice, a questo noi indirizziamo ogni nostra azione, al fine di allontanarci dalla sofferenza e dall’ansia”. La ricerca del piacere deve lasciare spazio alla libertà: “Perché non sono di per se stessi i banchetti, le feste, il godersi fanciulli e donne, i buoni pesci e tutto quanto può offrire una ricca tavola che fanno la dolcezza della vita felice, ma il lucido esame delle cause di ogni scelta o rifiuto, al fine di respingere i falsi condizionamenti che sono per l’animo causa di immensa sofferenza”.Gli dei sono preferibili al destino immutabile: “Piuttosto che essere schiavi del destino dei fisici, era meglio allora credere ai racconti degli dei, che almeno offrono la speranza di placarli con le preghiere, invece dell’atroce, inflessibile necessità”.

lunedì 7 aprile 2008

ONTOLOGIA



L'ontologia tradizionale ha avuto come fine la contemplazione di un Essere Perfetto e, in qualche modo, elevato. Da Heidegger in poi, i filosofi si sono spesse volte rammaricati del fatto che un tale orientamento abbia condotto allo scacco dell’ontologia stessa. Ma che succederebbe se l'ontologia non partisse più dall'alto, da un Empireo dell’essere, bensì dal basso? E' ciò che si chiede Noica, in un trattato che racchiude trent’anni di riflessione filosofica. Partire dal basso può significare, innanzi tutto, restituire un tono più umile a una simile riflessione, nell'ultimo secolo sempre più impallidita di fronte ai successi della ricerca scientifica. Quest’ultima, difatti, ha saputo dissertare di più e meglio sui vari aspetti della filosofia tradizionale, screditando la filosofia stessa e la sua secolare autorità. L'unico dominio non ancora nominalmente affetto da scientismo è quello dell'essere in quanto tale: e, proprio per questo, di tutte le forme filosofiche possibili l'ontologia sembra presentarsi come quella dotata di maggior senso attuale. Ma se l'ontologia verrà reinaugurata ‘dal basso’, la contemplazione dell'essere non potrà non avere inizio e fine che nel quotidiano intramondano, nella datità delle cose che sono. E' da queste premesse che si sviluppa il discorso noichiano, fondato su un severo richiamo al compito essenziale e sfuggente della filosofia: il poter dire, appunto, che ogni cosa è nella misura in cui è, e pertanto il comprendere il mondo nella doppia accezione del capirlo e dell’avvolgerlo.

domenica 6 aprile 2008

GUARDIA DI FERRO



"Noi non facciamo e non abbiamo fatto politica un sol giorno della nostra vita. Noi abbiamo una religione, noi siamo i seguaci di una fede; nel fuoco di questa fede ci consumiamo e, interamente guidati da essa, la serviamo sino all’estremo delle forze. Per noi non esiste sconfitta e capitolazione, giacché la forza di cui vogliamo essere gli strumenti è invincibile per l'eternità." (Corneliu Zelea Codreanu)

sabato 5 aprile 2008

WELTANSCHAUUNG



Il termine Weltanschauung appartiene alla lingua tedesca ed esprime un concetto fondamentale nella filosofia ed epistemologia tedesca, spesso applicato in vari altri campi, in primis nella critica letteraria e della storia dell'arte. Non è letteralmente traducibile in lingua italiana poiché non esiste nel nostro vocabolario una parola che le corrisponda appieno. Essa esprime un concetto di pura astrazione che può essere restrittivamente tradotto con "visione del mondo" e può essere riferito ad una persona, ad una famiglia o ad un popolo. La "Weltanschauung" tende a trovare una collocazione in un ordine generale dell'Universo comprensivo di elementi di specie, geografici, linguistici e razziali: pertanto, si tratta di un concetto che trascende il singolo e attinge nel collettivo condiviso, e l'uso di questo termine nel linguaggio italiano al posto di "visione del mondo" ha il significato di estendere il concetto ad una dimensione sovrapersonale di un determinato punto di vista. Nonostante i termini in lingua tedesca, contrariamente a molte parole inglesi, non siano entrati nell'uso comune dell'idioma italiano, il termine weltanschauung si ritrova oramai spesso nella lingua italiana scritta e, seppur meno frequentemente, anche in quella parlata: lo troviamo da tempo in trattazioni di diritto, sociologia, politica, filosofia, storia e linguistica, ma recentemente spesso anche in trattazioni non dotte e talvolta nel linguaggio comune.

venerdì 4 aprile 2008

IL TEMPO DI EMILE CIORAN



Un concetto, che sarà minimo comune denominatore del pensiero, anche se in certe occasioni velato, di tutta la produzione cioraniana sarà il tempo. Il tempo nelle sue diverse accezioni: tempo storico e tempo esistenziale.
"Tutti parlano di teorie, di dottrine, di religioni, insomma di astrazioni; nessuno di qualcosa di vivo, di vissuto di diretto. La filosofia e il resto sono attività derivate, astratte nel peggior senso della parola. Qui tutto è esangue. Il tempo si converte in temporalità, ecc. Un ammasso di sottoprodotti. D’altro canto gli uomini non cercano più il senso della vita partendo dalle loro esperienze, ma muovendo dai dati della storia o di qualche religione. Se in me non c’è niente che mi spinga a parlare del dolore o del nulla, perché perdere tempo a studiare il buddhismo? Bisogna cercare tutto in se stessi, e se non si trova ciò che si cerca, ebbene, si deve lasciar perdere. Quello che mi interessa è la mia vita. Per quanti libri sfogli, non trovo niente di diretto, di assoluto, di insostituibile. Dappertutto è il solito vaniloquio filosofico."

giovedì 3 aprile 2008

EXCALIBUR



Excalibur è la più famosa delle mitologiche spade di re Artù. La storia e la leggenda di Re Artù sono intimamente legate alla magica e misteriosa spada Excalibur. Come il mago Merlino aveva annunciato, solamente l'uomo in grado di estrarre la spada dalla roccia sarebbe diventato Re. Artù, inginocchiato di fronte alla roccia, fece proprio questo: prese la spada, la portò con sé fino alla Cattedrale e la depose sull'altare. Artù fu unto con l'olio santo e, alla presenza di tutti i Baroni e della gente comune, giurò solennemente di essere un Re leale e di difendere la verità e la giustizia per tutti i giorni della sua vita. La leggenda e la storia si sono mischiate tra loro nel tempo e la leggenda di Re Artù, dei Cavalieri della Tavola Rotonda e della magica spada Excalibur, sono giunte intimamente unite fino ai nostri giorni. Il nome Excalibur significa d'acciaio. La prima tradizione (secondo Geoffrey of Monmouth, Robert Wace and Layamon), chiamava la spada Caliburn; una spada magica venuta da Avalon. Nella tradizione celtica il nome originale era Caledfwylch. La versione in cui Artù estraeva la spada dalla roccia apparve per la prima volta nel racconto in versi francese Merlino, di Robert de Boron. Ma l'autore inglese Sir Thomas Malory scrisse che la spada che Artù aveva estratto dalla roccia non era Excalibur, poiché Artù aveva rotto la sua prima spada in uno scontro contro re Pellinor; lo stesso viene affermato nella francese Suite du Merlin (Prosa di Merlino), ca. 1240. Poco dopo, Artù ricevette una nuova spada dalla Dama del Lago, e questa era chiamata esplicitamente Excalibur: una spada diversa, secondo Malory, dalla prima. Il fodero di Excalibur aveva il potere magico di proteggere il suo proprietario dall'essere ferito; è il furto del fodero da parte di Morgana la Fata che porta, alla fine, alla morte di Artù. In Morte Arthure (ca. 1400), si dice che Artù aveva due spade; la seconda era Clarent, rubata dal malvaglio Mordred, che con essa diede ad Artù il colpo mortale.

mercoledì 2 aprile 2008

JULIUS EVOLA


Ciò che solo conta è questo: noi oggi ci troviamo in mezzo ad un mondo di rovine. E il problema da porsi è: esistono ancora uomini in piedi in mezzo a queste rovine? E che cosa debbono, che cosa possono essi ancora fare?
(Julius Evola)

martedì 1 aprile 2008

KABBALAH : SEFIROT



L'Albero della Vita costituisce la sintesi dei più noti e importanti insegnamenti della Cabala. È un diagramma, astratto e simbolico, costituito da dieci entità, chiamate Sefirot, disposte lungo tre pilastri verticali paralleli: tre a sinistra, tre a destra e quattro nel centro. Il pilastro centrale si estende al di sopra e al di sotto degli altri due. Le Sefirot corrispondono ad importanti concetti metafisici, a veri e propri attributi o emanazioni della ipostasi e dunque non possiedono la natura divina. Inoltre, esse sono anche associate alle situazioni pratiche ed emotive attraversate da ogni individuo, nella vita quotidiana. Le Sefirot sono dieci principi basilari, riconoscibili nella molteplicità disordinata e complessa della vita umana, capaci di unificarla e darle senso e pienezza. Osservando la figura, si può notare che le dieci Sefirot sono collegate da ventidue canali, tre orizzontali, sette verticali e dodici diagonali. Ogni canale corrisponde ad una delle ventidue lettere dell'Alef Beit ebraico. I tre pilastri dell'Albero della Vita corrispondono alle tre vie che ogni essere umano ha davanti: l'Amore (destra), la Forza (sinistra), e la Compassione (centro). Solo la via mediana, chiamata anche "via regale", ha in sé la capacità di unificare gli opposti. Senza il pilastro centrale, l'Albero della Vita diventa quello della conoscenza del bene e del male (quello biblico). I pilastri a destra e a sinistra rappresentano inoltre le due polarità basilari di tutta la realtà: il maschile a destra e il femminile a sinistra, dai quali sgorgano tutte le altre coppie d'opposti presenti nella creazione.