mercoledì 28 dicembre 2011

KARL POPPER EPISTEMOLOGIA




Popper ha descritto la genesi della sua teoria della conoscenza come il risultato di un confronto, da lui operato in età giovanile, tra la teoria della relatività di Einstein, da una parte, e la psicoanalisi e il marxismo dall'altra. Mentre queste ultime si presentano come teorie capaci di spiegare qualunque fenomeno di loro pertinenza e, quindi, come inconfutabili, la teoria di Einstein fornisce l'indicazione di esperimenti possibili che potrebbero confermarla o confutarla. Partendo da questa constatazione, Popper sviluppa nella Logica della scoperta scientifica una delle teorie scientifiche. Le teorie scientifiche sono costituite da asserzioni universali (ipotesi o leggi) e si ritiene che si arrivi ad esse attraverso un processo di induzione , che parte da asserzioni singolari, cioè da resoconti dei risultati di osservazioni o esperimenti. Ma, come già si era chiesto Hume, è giustificabile logicamente l'inferenza di asserzioni universali da asserzioni particolari, per quanto numerose queste siano? Secondo Popper la risposta è no: dal fatto che molti cigni sono bianchi non si può concludere che "tutti i cigni sono bianchi". Popper respinge, dunque, la logica induttiva; ma così facendo non si elimina ogni distinzione tra al scienza, che è la conoscenza autentica, e la metafisica? In realtà, a suo avviso, è il criterio di verificazione, sostenuto dai neopositivisti, che non fornisce un criterio di demarcazione adeguato tra esse, in quanto consente di concludere che il linguaggio della metafisica è privo di senso ma finisce per distruggere anche le scienze della natura. Esso presuppone, infatti, che solo asserzioni empiriche elementari, cioè resoconti di osservazioni di eventi singolari, permettono di decidere in modo conclusivo della verità o falsità di asserzioni generali, ossia delle leggi scientifiche. Ma se non è logicamente ammissibile l'inferenza da asserzioni singolari a teorie generali, le teorie non potranno mai essere verificate empiricamente; bisogna, dunque, individuare un criterio che permetta di accogliere entro le scienze empiriche anche asserzioni non verificabili. Dal punto di vista della storia delle scoperte scientifiche, alcune idee metafisiche sono state di ostacolo, ma altre, come per esempio l'atomismo, sono state fruttuose. Popper propone, quindi, un altro criterio di demarcazione tra scienza e ciò che non è scienza: si tratta del metodo dei controlli , per cui è scientifico solo un sistema che possa essere controllato dall'esperienza. Tale criterio non esige che un sistema sia capace di essere scelto una volta per tutte ma richiede soltanto che esso possa esser confutato dall'esperienza, cioè sia falsificabile. Popper precisa che la falsificabilità non è un criterio di significato, ovvero non distingue tra quel che ha senso e quel che non ha senso, come avviene con il principio di verificabilità dei neopositivisti, ma traccia una linea di demarcazione all'interno del linguaggio significante. Le asserzioni universali, in cui consistono le teorie, non possono essere derivate da asserzioni singolari, ma possono essere controllate da queste. Il che significa che le asserzioni base, ossia le asserzioni di un fatto singolare (per esempio, che un determinato cigno è nero) possono servire come premesse di una falsificazione. Ma anche queste asserzioni base devono essere controllate inter-soggettivamente; esse, infatti, non hanno quello stato privilegiato di certezza attribuito loro dai neopositivisti. Le osservazioni e gli esperimenti e i resoconti di essi non sono neutrali, ma sono sempre condotti e interpretati alla luce delle teorie. Per questo, secondo Popper, è sempre ingannevolmente facile trovare verificazioni di una teoria: così avviene con il marxismo e con la psicoanalisi, che interpretano ogni fenomeno come verifica positiva della loro teoria. Nella scienza, invece, non possono esserci asserzioni definitive, non più controllabili inter-soggettivamente, ossia non confutabili. Questo non vuol dire che, prima di essere accettata, ogni asserzione scientifica debba essere di fatto controllata, ma solo deve poter essere controllata. Per chiarire in che consista la falsificabilità, Popper precisa che le asserzioni base, che devono servire a falsificare una teoria, hanno la forma di asserzioni singolari esistenziali. La negazione di un'asserzione strettamente universale (per esempio, "Non tutti i corvi sono neri") equivale a un'asserzione strettamente esistenziale (per esempio, "Esiste almeno un corvo che non è nero"). Le leggi di natura hanno la forma di asserzioni strettamente universali, del tipo: "Tutti i corvi sono neri", e, quindi, sono esprimibili come negazioni di asserzioni strettamente esistenziali (ossia, "Non esiste alcun corvo che non sia nero"). Le leggi di natura sono pertanto paragonabili a dei divieti: esse, anziché asserire che qualcosa esiste o accade, lo negano. Le asserzioni strettamente universali non sono dunque verificabili, perché la loro verificazione richiederebbe una esplorazione esaustiva del mondo in ogni tempo per stabilire che qualcosa non esiste, non è mai esistito e non esisterà mai. Se invece è vera una sola asserzione singolare che infrange ciò che la legge proibisce o esclude, allora la legge risulta confutata. Questo significa che una teoria è falsificabile se la classe di tutte le asserzioni base, con le quali essa è in contraddizione o che essa esclude o vieta, non è vuota: queste asserzioni base vietate dalla teoria sono dette falsificatori potenziali di essa. Quanto più una teoria vieta, tanto maggiore è il contenuto di informazioni che essa fornisce e ciò è connesso appunto dall'ampiezza della classe dei suoi falsificatori potenziali. Per scegliere tra teorie bisogna, dunque, tener conto del loro grado di falsificabilità, il quale consiste appunto nel numero maggiore o minore di falsificatori potenziali. Le leggi scoperte nell'indagine scientifica sono sempre ipotesi, ma la cosa essenziale non è tanto discutere quanto sia probabile un'ipotesi, bensì valutare a quali controlli e prove ha resistito, mostrando la sua capacità di collaborazione . A determinare il grado di collaborazione interviene più che il numero dei casi a favore, la severità dei controlli, che dipende dalla semplicità dell'ipotesi più semplice, ossia falsificabile in grado più alto, è anche quella corroborabile a un grado più alto. La conclusione di Popper è che solo la confutabilità o falsificabilità distingue le teorie scientifiche dalla metafisica. In questo senso, egli non può essere scambiato per un neopositivista, che si sia limitato a sostituire la verificabilità con la falsificabilità.

sabato 24 dicembre 2011

AVESTA



L'Avestā ("Il Fondamentale" o il "Il Comandamento" [di Zarathuštra]) è il titolo complessivo dei testi sacri dell'antico Iran, appartenenti alla religione mazdeista. L' Avestā ha un carattere preminentemente religioso, ma comprende anche elementi di cosmogonia, astronomia, astrologia, oltre a tradizioni e norme familiari. Il termine Avestā, di formazione moderna, sarebbe riconducibile all'etimo pahlavico abestāg (medio persiano apastāk) che rende: "Fondamento", "Lode", "Elogio" o "Comandamento". Il senso da attribuire è dibattuto dagli iranisti..
La lingua dell'Avestā, detta avestico, è compresa nel gruppo dialettale iranico nord-orientale, così come alla stessa area sono riferite le informazioni geografiche presenti nel testo.
L' Avestā è stato riportato, a partire dal VI secolo d.C., in un alfabeto detto Alfabeto avestico ma che tradizionalmente viene indicato con il nome di Din Dabireh (Scrittura per la religione). Secondo lo storico musulmano del X secolo, Abu al-Hasan 'Ali al-Mas'udi (896-956), originariamente l'Alfabeto avestico si componeva di sessanta lettere e non di quarantotto come invece è in uso oggi. Probabilmente l'Alfabeto avestico origina da una grafia di tipo pahlavico, a sua volta derivata da una di tipo aramaico, in uso nella Persia settentrionale in epoca sasanide con cui l'Avestā veniva precedentemente riportata.
L' Avestā va distinto dai suoi commentari esegetici che sono designati come Zand (o Zend, dall'avestico āzandi,

venerdì 23 dicembre 2011

MIRCEA ELIADE





Eliade fu fenomenologo delle religioni, antropologo, filosofo e saggista; studioso del mondo arcaico e orientale, esperto di yoga e di sciamanesimo. Per i contatti giovanili avuti con il fascismo rumeno lo studioso fu criticato da molti suoi colleghi europei di sinistra, specialmente in Francia. Il suo pensiero, rispetto a molti altri antropologi, si caratterizza non solo per l'attenzione ma per una sua sentita adesione al modo arcaico, una sintonia che egli manifesta nel primato antropologico che egli riconosce alla categoria del sacro. Il mito dell'eterno ritorno è un saggio scritto nel 1945 e pubblicato nel 1949. « l'essenziale della mia ricerca riguarda l'immagine che l'uomo delle società arcaiche si è fatto di se stesso e del posto che occupa nel cosmo »
Così spiega Eliade nella introduzione alla versione italiana de Le Mythe de l'éternel retour, dove indaga la fenomenologia del sacro attraverso le sue tre manifestazioni, il rito, il mito e il simbolo, che riescono a esprimere concetti sull'essere ed il non essere, non riscontrabili altrimenti nelle lingue arcaiche. La storia delle religioni si era mossa in un primo momento sull'indagine sociologica ed etnologica; è con Rudolf Otto che la ricerca si muove in un'ottica di manifestazione, di ierofania, e separa nettamente il sacro da ciò che gli storici chiamarono mana una "forza impersonale".
Eliade, comparando differenti tradizioni e testi, dimostra la volontà nell'uomo arcaico di tornare a quel tempo primordiale, quando il gesto sacro fu compiuto da dei, eroi o antenati.
Così nelle tradizioni dell'India vedica troviamo che ogni creazione riproduce la creazione originale quella da caos a cosmos ossia la lotta originaria fra un'entità ordinatrice e formante contrapposta a quella indistinta e informe, è il caso di Tiamat e Marduk, nella tradizione babilonese.
Nel pantheon greco è Crono, figlio di Gea e Urano (terra e cielo), che non voleva che i suoi figli venissero alla luce.
Ma anche in ciò che noi riteniamo oggi attività profane, come la danza, esiste un archetipo. La danza del labirinto per i Greci rievocava la danza che Teseo fece dopo aver ucciso il minotauro e liberato le 7 coppie di giovani. Chiunque la eseguisse diveniva Teseo, ma non solo, i movimenti di questa danza si rifacevano al movimento dei pianeti.
Altre ritualità arcaiche si muovono attorno all'investitura del centro. Per un luogo l'essere il centro della terra è importante perché diviene la residenza della divinità, sia questo un palazzo o una montagna; per i babilonesi Marduk, il dio della creazione, risiedeva a Babilonia (bab è porta, letteralmente porta degli dei), che diveniva così Axis Mundis, punto d'incontro fra regioni infere, terra e cielo.
Il riconoscere una montagna o un palazzo, come centro del mondo, fa sì che queste diventino anche centro della creazione che in tutte le "genesi" si muove a partire dal centro di un qualcosa, come per l'embrione umano.Eliade pone in evidenza come attraverso la ritualità e quindi la sacralizzazione di luoghi persone o cose, l'uomo arcaico aspiri al rendere il mondo in cui vive "reale".
Il primato antropologico del sacro. Il fattore religioso (e più ancora quello mistico) sono per Eliade la chiave di volta per la comprensione dell'essenza dell'uomo. In pieno XX secolo, di fronte ai progressi scientifici, tecnologici e sociali egli resta un grande sostenitore del valore profondo dell'esistenza arcaica. Egli ha scritto: « Per lo storico delle religioni ogni manifestazione del sacro è importante; ogni rito, ogni mito, ogni credenza, ogni figura divina riflette l’esperienza del sacro, e di conseguenza implica le nozioni di essere, di significato, di verità. «È difficile immaginare – facevo già notare in altra occasione - come lo spirito umano potrebbe funzionare senza la convinzione che nel mondo vi sia qualcosa di irriducibilmente reale; ed è impossibile immaginare come la coscienza potrebbe manifestarsi senza conferire un significato agli impulsi e alle esperienze dell’uomo. La coscienza di un mondo reale e dotato di significato è legata intimamente alla scoperta del sacro. Mediante l’esperienza del sacro lo spirito umano ha colto la differenza tra ciò che si rivela reale, potente, ricco e dotato di significato, e ciò che è privo di queste qualità: il flusso caotico e pericoloso delle cose, le loro apparizioni e le loro scomparse fortuite e vuote di significato» (La Nostalgie des Origines, 1969, p.7 e ss.). Il “sacro” è insomma un elemento nella struttura della coscienza, e non è uno stadio nella storia della coscienza stessa. Ai livelli più arcaici di cultura vivere da essere umano è in sé e per sé un atto religioso, poiché l’alimentazione, la vita sessuale e il lavoro hanno valore sacrale. In altre parole, essere – o piuttosto divenire – un uomo significa essere “religioso

giovedì 22 dicembre 2011

EMIL CIORAN


Filosofo e saggista, maestro indiscusso dell'aforisma a cui ha affidato tutti i suoi pensieri (componendo un'opera tanto frammentaria quanto affascinante), questo solitario rumeno è nato l'8 aprile 1911 a Rasinari (Sibiu) in Transilvania.Figlio di un prete ortodosso e della presidentessa dell'associazione locale delle donne ortodosse, si laurea all'Università di Bucarest con una tesi su Bergson. Inizia ad insegnare presso i licei di Brasov e Sibiu: esperienza che ricorderà come catastrofica. Il suo primo libro, che segna l'esordio letterario del suo tormento interiore, è «Al culmine della disperazione» composto nel lontano 1934. Seguono «Il libro delle lusinghe« nel 1936 e «La trasfigurazione della Romania» nel 1937.Nello stesso anno vince una borsa di studio grazie alla quale si reca a Parigi («la sola città del mondo dove si poteva essere poveri senza vergogna senza complicazioni, senza drammi... la città ideale per essere un fallito») da dove non tornerà più in patria.Prima di partire per la Francia pubblica a proprie spese «Lacrime e santi». Nel 1940 esce il suo ultimo libro in romeno «Il tramonto dei pensieri»: da questo momento in poi scriverà solo in lingua francese («lingua adatta per il laconismo, la definizione, la formula...»).Del 1949 è «Sommario di decomposizione» in cui il vitalismo e la ribellione che affioravano negli scritti precedenti lasciano il posto all'annullamento totale allo scetticismo e all'impossibilità assoluta di credere e sperare.Nel 1952 esce «Sillogismi dell'amarezza» raccolta di aforismi corrosivi, mentre del 1956 è uno dei suoi successi più duraturi, successo forse agevolato dal suggestivo titolo, «La tentazione di esistere».Nel 1960 elabora invece «Storia e utopia» in cui si sottolinea come da qualsiasi sogno utopico basato su una presunta età dell'oro, sia essa passata o futura, si scatenino sempre forze liberticide.Del 1964 è «La caduta nel tempo» le cui ultime sette pagine - dichiarerà in una intervista - «sono la cosa più seria che abbia scritto.»In «Il funesto demiurgo», del 1969, approfondisce e chiarisce il suo legame con la tradizione del pensiero gnostico mentre ne «L'inconveniente di essere nati» (scritto nel 1973), fra i libri che ha sempre dichiarato di amare di più, la sua arte del frammento filosofico capace di squarciare il velo delle cose e delle emozioni raggiunge una delle sue vette più alte.La sapienza esistenziale di Cioran si fa d'altronde sempre più scavo analitico e disperante sguardo sul mondo, approdando ad un nichilismo che non conosce confini e che oltrepassa lo stesso orizzonte filosofico per farsi rifiuto concreto della realtà e dell'esistenza. Lo comprova il successivo «Squartamento» (1979), in cui però si intravedono i suoi legami con il pensiero gnostico e orientale, visto come unico approccio davvero autentico alla realtà.Del 1986 è «Esercizi di ammirazione», raccolta di ritratti di personalità della cultura internazionale (da Ceronetti a Eliade a Borges) ma contenente soprattutto un ampio saggio su Joseph de Maistre.Nel 1987 pubblica «Confessioni e anatemi», «... libro-testamento, che testimonia a un tempo di una rottura totale e di una certa serenità fondata sul nulla.»Emil Cioran è morto a Parigi il 20 giugno 1995.

mercoledì 21 dicembre 2011

LE VESTALI

Sacerdotesse della antichissima dea Vesta (corrispondente alla greca Estia), la dea del focolare domestico, le Vestali, le custodivano il tempio sul Foro, tenendo sempre acceso il fuoco, che secondo la leggenda era stato acceso per la prima volta da Romolo, come simbolo dell'eternità dell'Urbe.
L'istituzione delle Vestali è anteriore alla stessa nascita di Roma, anche se la leggenda le fa risalire all'epoca di Numa. Furono prima quattro, poi sei, infine sette. Venivano scelte dal Pontifex Maximus, suprema autorità religiosa di Roma, tra fanciulle dai sei ai dieci anni. Il loro servizio durava 30 anni, di cui dieci per la formazione, altri dieci per l'esercizio del ministero e gli ultimi dieci come maestre delle novizie. Come Vesta (intorno a cui non esistono racconti mitologici) dovevano rimanere vergini e per distinguersi dalle altre donne portavano una speciale acconciatura dei capelli e un velo bianco, suffibulum, che veniva assicurato sul petto mediante una fibbia. Il pontefice massimo, che vigilava sull'osservanza della verginità, aveva il potere di condannare a morte e far seppellire viva la Vestale che avesse trasgredito al suo impegno, nel “Campus Sceleratus” posto nei pressi di porta collina in una fossa, dotata di un giaciglio, di una lanterna e di poco cibo. Chiusa la fossa, se ne pareggiava il terreno per far sparire ogni traccia delle colpevoli. Anche il seduttore era punito con una fustigazione cosi violenta che ne provocava la morte. Le Vestali non erano sottoposte alla patria potestas ed erano esonerate dalla tutela, se si esclude ovviamente quella trentennale dello stesso pontefice. Anzi le Vestali erano le sole donne romane che, fino all'età di Augusto (63 a.C. - 14 d.C.), potessero esercitare i diritti civili, come quello di fare testamento, senza l'autorizzazione del tutore (ovviamente non potevano avere discendenza). Più tardi a questi privilegi poterono partecipare le donne romane con tre figli e le liberte con quattro. Le Vestali potevano avere il privilegio di graziare i condannati a morte. Famose le leggende di Rea Silvia, Ilia enniana e Tullia.
Pare che producessero anche la mola salsa, cioè il farro salato.

martedì 20 dicembre 2011

OSWALD SPENGLER : ILTRAMONTO DELL'OCCIDENTE



L'antitesi ipotizzata da Dilthey tra "spiegazione naturale" e "comprensione storica" si traduce in Oswald Spengler (1880-1936) nella contrapposizione tra "mondo come natura" e "mondo come storia". Spengler non fu tanto un filosofo nel senso rigoroso del termine, quanto piuttosto un ideologo, indubbiamente capace di cogliere certi orientamenti politico-spirituali del suo tempo, ma troppo proclive a sbrigative liquidazioni di determinati princìpi e valori (la libertà, la democrazia) e ad avventati appoggi agli orientamenti razzistici e totalitari approdati ad ultimo al nazismo. Egli, oltre ad altri scritti tra cui è bene ricordare Prussianesimo e socialismo (1919) e L'uomo e la tecnica (1931), è l'autore di una fortunata opera, Il tramonto dell'Occidente , pubblicata tra il 1918 e il 1922, cioè tra gli ultimi mesi della prima guerra mondiale e l'immediato dopoguerra, in un periodo in cui comincia ad accentuarsi (fino a diventare un elemento rilevante della cultura fra le due guerre mondiali) la consapevolezza di vivere in un periodo di crisi. Crisi sociale, economica e politica, in primis, ma anche crisi intellettuale e di valori, insomma delle certezze che l'inizio del secolo aveva ereditato dall'ottimismo ottocentesco (che con il Positivismo aveva raggiunto l'apice): " quello che ci appare più chiaro nei suoi contorni è il 'tramonto dell'antichità', mentre già oggi avvertiamo chiaramente in noi e intorno a noi i primi indizi di un avvenimento ad esso del tutto analogo per corso e durata, che appartiene ai primi secoli del prossimo millennio: il 'tramonto dell'Occidente' ". L'opera di Spengler è emblematica già dal titolo: la crisi e il crollo della Germania vengono interpretati come il tramonto dell'intera civiltà occidentale; in un quadro concettuale che riprende temi della speculazione di Goethe e di Nietzsche, Spengler tenta di rispondere alla domanda pressante sul destino della civiltà europea. Respingendo ogni concezione unitaria dello sviluppo storico, egli afferma la necessità di intendere la storia dell'umanità come esplicazione di una molteplicità di forme differenti, cioè di diverse civiltà dotate ciascuna di una propria vita e di un proprio sviluppo autonomo. Ogni civiltà è un organismo appartenente alla medesima specie e ha quindi una nascita, una crescita, una decadenza e una morte; e come in tutti gli organismi biologici questo ciclo di sviluppo ha il carattere della ineluttabilità, risultando necessariamente determinato dal corredo di possibilità di cui dispone all'inizio del suo sviluppo. Questo è il fondamento di ciò che Spengler chiama " logica organica della storia " , che ha il suo principio nella necessità del destino; e dal dominio della categoria della necessità deriva anche il carattere della risposta che egli dà al problema del futuro della civiltà occidentale. Esso può essere previsto in maniera esatta perché la civiltà occidentale seguirà lo stesso cammino di tutte le altre: " a noi non è data la libertà di realizzare una cosa anziché l'altra. Noi ci troviamo invece di fronte all'alternativa di fare il necessario e di non poter fare nulla. Un compito posto dalla necessità storica sarà in ogni caso realizzato, o col concorso dei singoli o ad onta di essi ". Spengler va quindi in cerca dei sintomi della decadenza dell'Occidente nell'analisi dei fenomeni economici e politici del mondo a lui contemporaneo, e li scorge nell'affermazione della borghesia, nel primato dell'economia sulla politica, nella democrazia, nella crisi dei princìpi religiosi e nella libertà di pensiero: " non esiste una satira più tremenda della libertà di pensiero. Un tempo non si poteva osare di pensare liberamente; ora ciò è permesso, ma non è più possibile. Si può pensare soltanto ciò che si deve volere, e proprio questo viene percepito come libertà ". Se il ciclo evolutivo è lo stesso per tutte le civiltà, è tuttavia diverso il loro corredo di possibilità. Spengler sviluppa qui, in senso radicalmente relativistico , la dottrina di Dilthey dell'autocentralità delle epoche storiche: ogni civiltà rappresenta un mondo a sé, con un proprio linguaggio formale, un proprio simbolismo, una propria concezione della natura e della storia. E' quindi possibile una comprensione effettiva solo nell'ambito di una stessa civiltà, che funge da orizzonte primario e intrascendibile; tra le civiltà non è possibile nessuna comunicazione, dal momento che ogni civiltà crea i propri valori e che tra di esse non vi sono valori comuni. Con l'opera di Spengler, lo storicismo tedesco dell'epoca approdava al relativismo: questo esito, già del resto implicito in Dilthey, spingerà verso tentativi di restaurazione dei valori che ne garantiscano la validità al di là delle singole epoche e culture. Non solo non può esistere una filosofia o una morale di tipo universale-assoluto, ma nessun principio teorico o pratico può pretendere di avere una validità non particolare e non contingente. Spengler riprende e irrigidisce il dualismo natura/storia : la natura è il regno dell'inerte e del "divenuto" , della cieca necessità causale e dell'anonima uniformità esprimibile nelle formule della scienza. La storia è, invece, il regno della vita e del vitale "divenire", dell'intelligente necessità organica e delle particolarità individuali e irripetibili. Protagonista della storia non è tanto l'uomo, quanto la "cultura": riprendendo (ma in modo per più versi unilaterale) un motivo dapprima caratteristico del Romanticismo, e poi da certi studiosi di fine Ottocento (ad esempio Burkhardt), Spengler interpreta la cultura come organismo . Ogni cultura/organismo ha una sua forma peculiare che ne caratterizza tutti gli aspetti costitutivi e che la distingue poi da tutte le altre. Essa ha inoltre una sua nascita, un suo sviluppo secondo un destino necessario e un non meno necessario tramonto. Tale tramonto si realizza appunto quando tutte le sue potenzialità si sono realizzate e a ciò segue un inesorabile processo di decadenza. I momenti estremi di tale vicenda (propria di tutte le culture in quanto tali) vengono indicati da Spengler coi due concetti di "Kultur" e di "Zivilisation": due termini non nuovi (presenti già anche in Kant), ma che Spengler ha contribuito a popolarizzare. La Kultur è la cultura positiva, vitale, non priva di una sana barbarie; la Zivilisation (di cui non deve sfuggire la provenienza lessicale straniera) è invece la cultura raffinata ed estenuata della decadenza internazionale malata e votata alla consunzione. Per Spengler l'Occidente è oramai giunto alla Zivilisation e, dunque, alle soglie del suo inevitabile tramonto. L'unica speranza che si apre a questo punto è quella di un radicale sovvertimento di tutti gli pseudo-valori dell'epoca o dell'intero sistema socio-politico, in grado di ricondurre l'Occidente a un rinnovato stato primitivo.

lunedì 19 dicembre 2011

ERNST JUNGER: IL TRATTATO DEL RIBELLE




Nei primi anni del secondo dopoguerra Ernst Jünger scrive una preziosa guida alla libertà che uscirà nel 1951 con il titolo enigmatico Der Waldgang (passaggio al bosco), oggi edito in Italia con il titolo Trattato del Ribelle (Adelphi). Nell’antica Islanda il Waldgänger (letteralmente, colui che passa al bosco), è il proscritto che si dà alla macchia e conduce una vita solitaria, libera e rischiosa. Lo scrittore tedesco si rifà a questa tradizione nordica per tracciare la figura del Ribelle, un tipo d’uomo che sceglie di resistere al nichilismo desertificante del nostro tempo. Jünger individua nelle “teorie che tendono ad una spiegazione logica e razionale del mondo”, e nel “progredire della tecnica”, l’origine dell’assedio all’uomo moderno. Com’è possibile salvarsi da questa realtà che annienta l’essere, o perlomeno lo nasconde sotto identità artificiali? La risposta che Junger dà è : Incamminandosi lungo la Via del Bosco… Se la nave, il Titanic, è il simbolo della civiltà tecnologica avanzata in cui trionfano razionalismo, ostentazione volgare, ed automatismo, il Wald /(Selva) è lo spazio sacro in cui l’uomo incontra se stesso, riscoprendo le forze primordiali della vita. Che il mondo della sicurezza borghese invece nega, intimorito dalla natura elementare. Come se si potessero cancellare gli istinti, le pulsioni profonde e la stessa morte (tutto ciò che troviamo nel Bosco), con una scelta razionale. La Selva non è quindi semplicemente un paesaggio naturale, ma soprattutto il simbolo di quella “terra selvaggia” (Wildnis), che ogni uomo ha in sé. In questo senso il bosco può crescere ovunque, sulla nave come nella metropoli moderna e per questo Jünger parla del bosco come di qualcosa di intimo, di segreto, che molti possono ritrovare, lì dove sono, dentro di sé. La parola tedesca heimlich significa appunto segreto, e quindi luogo protetto. Il passaggio al bosco è però anche unheimlich/inquietante : una “escursione perigliosa” , oltre il “meridiano zero del nulla” che comporta un “avvicinamento” alla morte. Come insegnano le dottrine tradizionali, solo nell’estremo pericolo cresce ciò che salva. Nella foresta infatti il Ribelle rinasce ad una vita nuova e più autentica: solo andando verso la morte il singolo, che è “l’uomo libero come Dio l’ha creato, l’uomo che si nasconde in ciascuno di noi”, può vincere la paura dell’annientamento, e quindi ogni altro timore che discende da quella paura. Diventando così un uomo libero, conscio della sua natura principesca e dell’immensità della sua forza che lo mette in relazione con l’Assoluto. Il passaggio al bosco non sembra dunque, come lascia intendere lo stesso Jünger, un regresso al mondo delle madri. Ce lo ricorda Nietzsche: il “ritorno alla natura” non è propriamente un retrocedere ma un andare in alto verso “l’eccelsa, libera, e anche tremenda natura e naturalità, una natura che gioca e può giocare coi grandi compiti”. In definitiva possiamo dire che con il Trattato del Ribelle Jünger ci consegna un’immagine della foresta (che ritroviamo spesso anche nella mitologia e nelle fiabe europee, a testimonianza di quanto sia radicato nel nostro animo il simbolo del bosco), come luogo in cui l’uomo diviene sovrano di sé, ritrovando il contatto con quei poteri che sono superiori alle forze del tempo. E , come afferma Claudio Risé ne L’ombra del potere (Red edizioni), il Waldgänger è una rappresentazione contemporanea dell’archetipo dell’Uomo Selvatico, colui che si salva grazie al suo sapere naturale. La Via del Bosco è dunque il percorso che ogni uomo deve compiere per recuperare la sua “selvatichezza”, e per riscoprire quelle forze ed energie maschili, anche violente ma necessarie alla trasformazione della realtà, che la società grandematerna ha sacrificato sull’altare delle buone maniere.

VITE PARALLELE: PLUTARCO




Le Vite parallele sono biografie, presentate in coppia, di illustri personaggi greci e romani, accostati, nella loro radicale differenza originaria, per analogia di caratteristiche: Teseo e Romolo, i primi re di Atene e Roma; Alessandro e Cesare, entrambi grandi condottieri e monarchi, e così via. Tutte le coppie biografiche si chiudono con un confronto riassuntivo finale. È un’opera monumentale: comprende 50 biografie, 46 delle quali sono “accoppiate”, formando 23 coppie di vite messe a confronto, mentre le altre 4, di Arato, Artaserse, Galba e Otone, sono separate. Secondo lo stesso Plutarco le “Vite parallele” vanno inserite nel genere biografico: egli infatti, più che una narrazione indistinta e regolare di eventi storici, si è concentrato sulla presentazione di quelle circostanze che potevano far trapelare la personalità del personaggio e che lo potevano ricollegare al suo corrispettivo nella civiltà opposta. La storia si occupa di fatti importanti, la vita, invece, di cose apparentemente secondarie. L'indole di un uomo si vede di più nelle piccole cose di tutti i giorni piuttosto che nelle grandi battaglie. Per questo nelle biografie Plutarco ha escluso la narrazione e la descrizione delle grandi imprese, perché ormai erano cose già conosciute e si sapeva dove trovarle: Plutarco aveva come scopo quello di trovare il vir e non lo si poteva trovare nel modo in cui il personaggio si comportava sul luogo di battaglia, ma nella vita di tutti i giorni. La storia del personaggio è stata quindi o accennata o riassunta o data per scontata. Plutarco ha preferito porre attenzione non sulle azioni, ma sul modo di agire: l’atteggiamento che un personaggio tiene in pubblico è troppo condizionato da diversi fattori, come la sua carica o la sua posizione sociale; Plutarco invece ricercava l’individuo. A tale scopo, nel contesto dell’opera e delle sue finalità, i piccoli particolari, come una frase, uno scherzo, o un breve aneddoto, potevano risultare di maggiore rilevanza di azioni più appariscenti o di sanguinose battaglie.Testimonianza di questa scelta da parte di Plutarco può essere considerato il confronto tra Demostene e Cicerone: nell’introduzione al confronto tra i due grandi oratori, Plutarco afferma: “cercherò di esaminare e mettere a confronto la natura e la disposizione d’animo dei suddetti personaggi, fondandomi sulle loro azioni. Tralascerò, invece, di stabilire un paragone tra le loro capacità oratorie, tentando di dimostrare chi fosse più abile con le parole e più piacevole all’ascolto”.Nelle vite si è notato come Plutarco non abbia parlato di quello che dovrebbe essere il suo eroe, Epaminonda, e nemmeno di Scipione: questo ha fatto ipotizzare che molto probabilmente la prima parte dell'opera sia andata persa. La critica ha giudicato le vite come biografie attendibili che si chiudevano con dei confronti, molti dei quali erano forzati perché Plutarco rimase ingabbiato nell’impostazione del confronto e si trovò obbligato a farlo, anche quando non c'erano elementi palesi per effettuare il confronto. La critica più recente, però, non vede questi collegamenti a volte forzati come degli “accessori”, ma come elementi basilari. Per esempio Quinto Fabio Massimo è paragonato a Pericle: la tattica di uno di temporeggiare contro Annibale non fu ascoltata così come l’altro ebbe numerosi oppositori. Questo collegamento quindi non sarebbe forzato perché Plutarco ha visto il comune tra i due: è riuscito a vedere qualcosa che non era immediatamente visibile ed è andato a fondo nel personaggio.Nei confronti tra i vari personaggi, il personaggio di origini greche è sempre più antico, sia per una questione di datazione, in quanto i personaggi greci risalgono al VI-IV secolo avanti Cristo, mentre quelli romani alla fine della repubblica e all’inizio dell’impero; sia per una questione di documentazione, in quanto quella greca era di gran lunga maggiore. Anche Plutarco ha preso posizione in questo “dibattito”, sostenendo che la civiltà greca era anteriore e originale: i Greci hanno trovato e i Romani hanno avuto già la strada aperta. Riassumendo, con quest'opera Plutarco voleva evidenziare quello che accomunava o divide due mentalità: l’opera aveva un intento di confronto, ma anche di moralità; quest’ultimo aspetto ha risentito dell’influenza romana degli exempla: infatti Plutarco, attraverso la sua opera, voleva dare degli esempi, dei modelli da seguire, i suoi personaggi sono degli eroi. Anche quando sono negativi sono utili, perché quanto indicano l’esempio negativo da rifuggire.

domenica 18 dicembre 2011

DE CONSOLATIONE PHILOSOPHIAE



Il De consolatione philosophiae "La consolazione della filosofia") è un'opera dello scrittore latino Severino Boezio. Il suo periodo di composizione, che s'aggira attorno al 523 d.C., vede Boezio rinchiuso in un carcere nei pressi di Pavia, dove attende l'esecuzione capitale che subirà nel 525. L'opera si articola in cinque libri ognuno dei quali tratta un tema di ordine filosofico. L'autore immagina, secondo un topos letterario molto diffuso nel medioevo e nell'antichità classica, di essere consolato dalla Filosofia, impersonata da una donna. Guidato dalla sua Maestra, Boezio si interroga sull'esistenza del male e sulla sua natura, sulla fortuna, sulla felicità e sul libero arbitrio. Nell'opera ritorna il tema della sofferenza del giusto, il giusto che paga, mentre il peccatore trionfa. Boezio paragona la sua fine a quella dei filosofi suoi predecessori, ad Anassagora cacciato da Atene, a Socrate e Seneca uccisi, a Zenone che sembra essere morto sotto un tiranno. A questa ingiustizia terrena contrappone la Filosofia, che è una consolazione provvidenziale, una donna venerabile che caccia le sgualdrinelle di teatro, Muse frivole perché creano soltanto l'ambizione e non la verità. La filosofia è perciò l'unica Dea degna di essere amata. Nel De Consolatione philosophiae Boezio abbandona lo stile tecnico e arido delle sue composizioni scientifiche per abbracciare un tono, se non ispirato, più felice. L'opera di Boezio è un ottimo esempio di prosimetro dove la poesia si alterna alla prosa, tanto che divenne modello per Dante Alighieri nella composizione della Vita Nova.
Come nei testi antichi, viene fatto un largo uso dell'allegoria e la filosofia prende tutte le sue valenze di salvezza, ma in una prospettiva cristiana di salvezza.

MADZEISMO



Questa religione è stata quella a lungo più venerata nell’impero persiano. Essa nacque nel periodo achemenide ed era legata anche al potere che la classe sacerdotale gestiva nella struttura sociale.
Il grande dio era Ahuramazdah, creatore di tutto. E’ lui che guida gli atti del re, a cui ha dato direttamente il potere. Tuttavia bisogna precisare che la Persia degli achemenidi non era uno stato fondato sulla religione, cioè integralista, come avverrà per i califfi arabi che regneranno al posto dei persiani. Vi sono altre divinità: Mitra (sole) che verrà venerato anche dai romani; Mah (luna), Zam (terra), Atar (fuoco), Apam Napat (acqua), Vayu (vento). Questo modello religioso si sviluppa con Dario a cui il potere è conferito da dio stesso. Si tratta di divinità legate alla natura ed alle esigenze primarie degli iranici. Con Antaserse II assistiamo alla presenza di questa trinità: Ahuramazdah, Mitra, dio del sole, dei contratti (legato al commercio) e della redenzione, Anahita, dea delle acque, della fecondità e della procreazione. I Persiani veneravano le loro divinità con sacrifici di sangue, secondo l’influenza indo-iranica. Tra i sacerdoti ricordiamo la classe particolare dei magi, di origine meda, che era l’espressione di una religiosità di tipo sciita, la quale svolgeva un’attività a parte rispetto agli altri sacerdoti e deteneva un fortissimo potere presso la corte. Rappresentavano una comunità isolata che praticava il matrimonio tra consanguinei e non usavano l’inumazione dei cadaveri, come avveniva tra i Persiani, ma li esponevano all’aria per essere escarnificati. Essi credevano nel BENE e nel MALE. Essi preparavano l’haoma, una pozione inebriante impiegata durante i riti religiosi. Dal commercio di tale bevanda traevano numerosi proventi economici. Inoltre i magi custodivano le tombe reali, educavano la gioventù maschile, interpretavano i sogni, celebravano i sacrifici, prendevano parte all’incoronazione reale presso Pasagarde. Si osservi come molte pratiche dei magi saranno simili a quelle celtiche. Ciò è dovuto alla comune origine della religione nel popolo scita. I Persiani non avevano numerosi templi, ne ricordiamo tre: a Pasargade, realizzato da Ciro, a Susa, costruito da Antaserse II ed a Naqs-i Rustam, eretto da Dario. La maggior parte delle cerimonie religiose veniva praticata all’aria aperta, su altari poste in campagna.
Alcuni imperatori achemenidi eressero alcune statue alle divinità, come è avvenuto ad Ectabana o presso Babilonia per la dea Anahita. Non si tratta di una religione monoteista, ma è indubbio che il ruolo principale è svolto da Ahuramazdah. Nel periodo partico il culto della dea Anahita, conosciuta anche come Artemide, occupò un ruolo principale. Sorsero numerosi templi in tutto l’impero dedicati a questa divinità: Arsak, Ectabana, Kengavar, Susa, Istahr, Siz. In questo periodo ebbero un forte sviluppo anche i magi, che gestirono un potere in tutto l’impero.
Il dio Mitra conobbe una rapida diffusione nell’impero romano nel periodo di dominazione di Pompeo in oriente. Egli, infatti, riportò numerosi prigionieri a Roma che trasmisero la propria religione.

sabato 17 dicembre 2011

LA FILOSOFIA SECONDO ARISTOTELE



Aristotele concepisce la filosofia non tanto come un esercizio di sapienza, bensì un’attività scientifica articolata in un sistema di discipline distinte, e mirante ad abbracciare tutti gli aspetti della realtà. Essa non serve a trasformare il mondo, ma soltanto a comprenderne l’ordine e a giustificarlo così com’è. Il sapere è inteso come la conoscenza delle cause e i principi. Al di sopra di ogni disciplina, allo stagirita va il merito di aver insegnato la logica, l’arte del ragionare in modo corretto per scoprire la verità delle cose. Prima di lui, quando non si riusciva ad interpretare un fenomeno naturale, si credeva che intervenisse una forza soprannaturale. Egli dimostrò che con il ragionamento si potevano spiegare i fenomeni dell’Universo. Molte sue geniali osservazioni non sono ora più accettabili, in virtù del fatto che egli vi giunse solo con l’aiuto della logica, senza mai sperimentare. Le teorie di Aristotele furono considerate le più autorevoli fino a quando gli strumenti della fisica moderna, come il telescopio, non rilevarono i complessi aspetti dell’Universo. La concezione aristotelica dell’Universo è la seguente: una serie di sfere concentriche, al cui centro si trova la Terra. Al limite esterno si trova una sfera di dimensioni finite contenente le cosiddette stelle fisse. L’universo risulta quindi finito e circoscritto da una specie d’involucro materiale. Il Sole è considerato l’elemento che assicura il rapporto fra i moti astrali e la vita terrestre. Gran parte della riflessione logica consiste nella descrizione delle forme proprie della lingua greca. Dietro di ciò agisce nel filosofo stagirita la consapevolezza dell’esistenza di uno stretto rapporto fra linguaggio e ordine della realtà. L’intero campo del sapere è diviso in tre partizioni: le discipline poietiche, quelle pratiche e quelle teoriche. Le prime sono quelle il cui scopo sta nella produzione di oggetti materiali. Le seconde producono non oggetti, bensì comportamenti umani. Le terze infine, sono caratterizzate da finalità esclusivamente conoscitive. Lo scopo della scienza aristotelica consiste nel penetrare più a fondo possibile nella struttura delle singole cose che popolano l’universo, che variano dagli astri, le specie biologiche, la psiche umana e i diversi regimi sociali. Il filosofo stagirita è considerato il principale teorico della tragedia. Nell’antichità greca questo genere drammatico era definito come mimesi, in altre parole imitazione della natura e della vita. Aristotele attribuisce alla mimesi ulteriore e inconfondibili caratteri. Essa non è tanto imitazione della storia, ma del verisimile. Non si tratta di scrivere cose realmente accadute, bensì quelle che potrebbero accadere. Un altro elemento introdotto è la catarsi: la purificazione che la rappresentazione teatrale esercita nell’animo degli spettatori. La natura invece è intesa come un insieme di realtà dotate di autonomia e di una capacità di generare processi finalizzati alla realizzazione di un’ordine. Il Dio di Aristotele è il frutto di un’esigenza cosmologica, e non di un bisogno di salvezza. E’ la condizione assoluta della vita e del pensiero. Dio inoltre garantisce la stabilità e l’ordine del mondo. Il filosofo stagirita attribuisce una sostanziale importanza anche alla psiche, alla quale dedica un’intera opera: l’Anima. Essa non è altro che una forma di un corpo vivente, la struttura funzionante di un organismo biologico. Corpo e anima stanno nello stesso rapporto di materia e forma, potenza e atto, organo e funzione.


domenica 11 dicembre 2011

HAGAKURE



Hagakure è una delle opere letterarie più significative tramandateci dal Giappone, pubblicata nel 1906 ma composta due secoli prima. Il titolo Hagakure significa letteralmente "nascosto dalle foglie" (oppure "all'ombra delle foglie"; il titolo completo era Hagakure kikigaki, "annotazioni su cose udite all'ombra delle foglie") e l'opera trasmette l'antica saggezza dei samurai sotto forma di brevi aforismi dai quali emerge lo spirito del Bushidō (la Via del guerriero) con la differenza di rivolgersi al Samurai solitario (rōnin) che può venire a trovarsi, per una serie di vicissitudini che non dipendono dalla sua volontà, senza un Signore da servire. Questa peculiarità attrasse lo scrittore e drammaturgo Yukio Mishima che vedeva nel periodo storico da lui vissuto il riproporsi di questa situazione che viveva con profonda sofferenza. L'autore Yamamoto Tsunetomo fu al servizio del daimyo Nabeshima Mitsushige (1632-1700) del feudo di Saga in un'epoca di pace e di inizio della decadenza dei samurai. Quando il daimyo morì, Yamamoto divenne monaco buddhista e si ritirò in monastero dove compose, aiutato dall'allievo Tashiro Tsuramoto, lo Hagakure, l'opera sullo spirito e il codice di condotta del samurai. Esso ebbe ampia diffusione, e dopo la pubblicazione subì la strumentalizzazione del militarismo giapponese della prima metà del XX secolo al punto che i Kamikaze portavano con sé questo testo come ultimo compagno di morte. Il tema principale del testo è la morte, non come semplice estinzione della vita, piuttosto nel senso psicologico dell'eliminazione dell'io. Lo Hagakure fu considerato un libro fondamentale e profondamente ispirante da Yukio Mishima. Egli, nell'estate del 1967, cioè tre anni prima del suo clamoroso seppuku, scrisse un commento ai primi tre volumi dell'opera. Questo libro, edito in Italia col titolo: La via del samurai, Bompiani 1987 costituì, oltre che un interessante approfondimento sull'opera, un vero e proprio testamento spirituale di Mishima. Hagakure è una raccolta di principi morali ma anche di consigli pratici, norme comportamentali, notizie storiche ed episodi esemplari di valore. Alcuni sono di natura assai spicciola (Come reprimere uno sbadiglio o Come licenziare un servo) e di semplice etichetta, altri invece costituiscono il nucleo del bushido cioè di quell'insieme di principi che costituì per secoli l'etica di tutto il popolo giapponese.