domenica 29 aprile 2012

JACQUES LACAN


Le tematiche psicanalitiche trattate da Jacques Lacan (1901-1981), mettendo in primo piano la nozione di inconscio, procedono verso l'abbandono della centralità del soggetto come chiave d'interpretazione del modo d'essere dell'uomo e della sua storia. Laureatosi in psichiatria, Lacan frequentò i surrealisti, interessati alla scrittura automatica attraverso libere associazioni e alle modalità creative del linguaggio onirico, ed entrò a far parte della "Société psychanalytique de Paris", fondata nel 1926, ma nel 1953 operò una secessione e fondò la "Société française de psychanalyse", che non fu riconosciuta dall'"Associazione psicoanalitica internazionale". Nel 1963 ebbe luogo un'altra scissione in seguito alla quale Lacan costituì l' "Ecole freudienne de Paris", che però si dissolse nel 1980. Le sue tesi, elaborate soprattutto nel corso dei seminari del mercoledì tenuti a partire dal 1953 nell'ospedale di Sainte Anne, sono raccolte negli " Scritti " (1966), di assai difficile lettura. Lacan intende tornare all'insegnamento originario di Freud , che a suo avviso è stato travisato negli sviluppi successivi della psicoanalisi. Lacan, pur essendo considerato da molti un innovatore del pensiero freudiano, dichiara di voler "tornare all'insegnamento originario di Freud" e malgrado sia stato sconfessato più di una volta dalle istituzioni freudiane ortodosse si è sempre proclamato l'unico vero interprete dell'insegnamento di Freud. La rivoluzione freudiana è consistita nel detronizzare l'Io, riconoscendo nell' inconscio , la vera voce dell'individuo: chi parla nell'individuo non è propriamente l'Io, ma l'inconscio. Come aveva mostrato Freud, soprattutto nell' "Interpretazione dei sogni", l'inconscio è " strutturato come un linguaggio ", è " desiderio che diviene linguaggio " e l'analisi dell'inconscio è dunque fondamentalmente la decifrazione di tale linguaggio . Anche Lacan riprende da Saussure la concezione secondo cui la lingua e i segni sono autonomi rispetto alle prestazioni linguistiche individuali; in questo senso, il linguaggio dell'inconscio è il discorso dell'Altro rispetto al soggetto conscio. Alle due modalità della condensazione e dello spostamento, individuate da Freud nell'analisi dei sogni, corrispondono la metafora e la metonimia , che secondo Jakobson sono gli assi portanti di ogni lingua. In particolare, la metafora è la condensazione in una singola parola o immagine, mentre la metonimia, ossia il denominare una cosa con il nome di un'altra, con la quale essa è in relazione di dipendenza o di continuità, è analoga allo spostamento, cioè alla sostituzione di un'idea o immagine con altre associate ad essa. L'analisi e la terapia psicoanalitica non devono mirare a potenziare l'Io, cioè la dimensione conscia, ma consentire l'accesso alla verità dell'inconscio. La verità, infatti, risiedendo nell'inconscio, è anonima, non è oggetto di un sapere posseduto dall'Io; anzi, il sapere, in quanto dominio di un oggetto, si oppone, secondo Lacan, alla verità. Solo la psicoanalisi, operando una riduzione dell'Io, può lasciare che la verità parli, anche se mai nella sua interezza. Il soggetto o Io, secondo Lacan, non è il dato originario della vita psichica dell'individuo, ma il risultato di una costruzione. La prima tappa è costituita dallo stadio dello specchio , studiato da Lacan già prima della guerra. Tra i sei e i diciotto mesi, il bambino arriva a riconoscere la propria immagine riflessa nello specchio e elabora un primo abbozzo dell'Io, ma all'interno dell'immaginario, ovvero entro una relazione duale di confusione tra sé e l'altro. Tale identificazione è primaria, matrice di tutte le altre, per esempio con la madre. Rispetto alla specularità dei desideri della madre e del bambino viene a interporsi la figura paterna e con essa l'interdizione dell'incesto (l'Edipo), su cui si fondano l' ordine simbolico e la civiltà . Il padre, infatti, rappresenta " la figura della legge ": la sua parola produce la rimozione del desiderio della madre. Ciò vuol dire, secondo Lacan, che l'ordine simbolico, ovvero il linguaggio, si fonda sulla rimozione dell'immaginario, ossia su una scissione fra psichismo inconscio e conscio. Con l'accesso all'ordine simbolico si accede, al tempo stesso, alla società e alla cultura, necessarie al sorgere della soggettività. Il simbolico è il luogo dell'inconscio impersonale, dove sono depositati i simboli linguistici e sociali, privi di significazione, finchè non s'incarnano in un individuo. Il soggetto conferisce significato a questi simboli, accentrandosi intorno a un'unità immaginaria, il Me, ossia facendo perno sull'immagine di sé, che estrania l'Io in un'alterità idealizzata e conferisce al mondo un carattere antropomorfico. L'inconscio, infatti, non ha un centro e quindi anche l'uomo è eccentrico e perde la propria unità nel momento in cui si riconosce nell'alterità della sua immagine esteriore, nella quale vengono a stratificarsi le sue identificazioni ideali. Secondo Lacan, è impossibile la ricomposizione dell'Io col Me : tra essi si colloca l'immaginario della pulsione di morte. Analogamente resta inattingibile il reale in sé, perché in mezzo c'è sempre il simbolico: il divieto paterno, spostando la pienezza del legame con la madre, ha fatto sì che si desidera ciò che non si ha, così chè il reale diventa lo scopo irraggiungibile, che perpetua eternamente il desiderio.

lunedì 23 aprile 2012

SPENGLER: IL TRAMONTO DELL' OCCIDENTE

L'antitesi ipotizzata da Dilthey tra "spiegazione naturale" e "comprensione storica" si traduce in Oswald Spengler (1880-1936) nella contrapposizione tra "mondo come natura" e "mondo come storia". Spengler non fu tanto un filosofo nel senso rigoroso del termine, quanto piuttosto un ideologo, indubbiamente capace di cogliere certi orientamenti politico-spirituali del suo tempo, ma troppo proclive a sbrigative liquidazioni di determinati princìpi e valori (la libertà, la democrazia) e ad avventati appoggi agli orientamenti razzistici e totalitari approdati ad ultimo al nazismo. Egli, oltre ad altri scritti tra cui è bene ricordare Prussianesimo e socialismo (1919) e L'uomo e la tecnica (1931), è l'autore di una fortunata opera, Il tramonto dell'Occidente , pubblicata tra il 1918 e il 1922, cioè tra gli ultimi mesi della prima guerra mondiale e l'immediato dopoguerra, in un periodo in cui comincia ad accentuarsi (fino a diventare un elemento rilevante della cultura fra le due guerre mondiali) la consapevolezza di vivere in un periodo di crisi. Crisi sociale, economica e politica, in primis, ma anche crisi intellettuale e di valori, insomma delle certezze che l'inizio del secolo aveva ereditato dall'ottimismo ottocentesco (che con il Positivismo aveva raggiunto l'apice): " quello che ci appare più chiaro nei suoi contorni è il 'tramonto dell'antichità', mentre già oggi avvertiamo chiaramente in noi e intorno a noi i primi indizi di un avvenimento ad esso del tutto analogo per corso e durata, che appartiene ai primi secoli del prossimo millennio: il 'tramonto dell'Occidente' ". L'opera di Spengler è emblematica già dal titolo: la crisi e il crollo della Germania vengono interpretati come il tramonto dell'intera civiltà occidentale; in un quadro concettuale che riprende temi della speculazione di Goethe e di Nietzsche, Spengler tenta di rispondere alla domanda pressante sul destino della civiltà europea. Respingendo ogni concezione unitaria dello sviluppo storico, egli afferma la necessità di intendere la storia dell'umanità come esplicazione di una molteplicità di forme differenti, cioè di diverse civiltà dotate ciascuna di una propria vita e di un proprio sviluppo autonomo. Ogni civiltà è un organismo appartenente alla medesima specie e ha quindi una nascita, una crescita, una decadenza e una morte; e come in tutti gli organismi biologici questo ciclo di sviluppo ha il carattere della ineluttabilità, risultando necessariamente determinato dal corredo di possibilità di cui dispone all'inizio del suo sviluppo. Questo è il fondamento di ciò che Spengler chiama " logica organica della storia " , che ha il suo principio nella necessità del destino; e dal dominio della categoria della necessità deriva anche il carattere della risposta che egli dà al problema del futuro della civiltà occidentale. Esso può essere previsto in maniera esatta perché la civiltà occidentale seguirà lo stesso cammino di tutte le altre: " a noi non è data la libertà di realizzare una cosa anziché l'altra. Noi ci troviamo invece di fronte all'alternativa di fare il necessario e di non poter fare nulla. Un compito posto dalla necessità storica sarà in ogni caso realizzato, o col concorso dei singoli o ad onta di essi ". Spengler va quindi in cerca dei sintomi della decadenza dell'Occidente nell'analisi dei fenomeni economici e politici del mondo a lui contemporaneo, e li scorge nell'affermazione della borghesia, nel primato dell'economia sulla politica, nella democrazia, nella crisi dei princìpi religiosi e nella libertà di pensiero: " non esiste una satira più tremenda della libertà di pensiero. Un tempo non si poteva osare di pensare liberamente; ora ciò è permesso, ma non è più possibile. Si può pensare soltanto ciò che si deve volere, e proprio questo viene percepito come libertà ". Se il ciclo evolutivo è lo stesso per tutte le civiltà, è tuttavia diverso il loro corredo di possibilità. Spengler sviluppa qui, in senso radicalmente relativistico , la dottrina di Dilthey dell'autocentralità delle epoche storiche: ogni civiltà rappresenta un mondo a sé, con un proprio linguaggio formale, un proprio simbolismo, una propria concezione della natura e della storia. E' quindi possibile una comprensione effettiva solo nell'ambito di una stessa civiltà, che funge da orizzonte primario e intrascendibile; tra le civiltà non è possibile nessuna comunicazione, dal momento che ogni civiltà crea i propri valori e che tra di esse non vi sono valori comuni. Con l'opera di Spengler, lo storicismo tedesco dell'epoca approdava al relativismo: questo esito, già del resto implicito in Dilthey, spingerà verso tentativi di restaurazione dei valori che ne garantiscano la validità al di là delle singole epoche e culture. Non solo non può esistere una filosofia o una morale di tipo universale-assoluto, ma nessun principio teorico o pratico può pretendere di avere una validità non particolare e non contingente. Spengler riprende e irrigidisce il dualismo natura/storia : la natura è il regno dell'inerte e del "divenuto" , della cieca necessità causale e dell'anonima uniformità esprimibile nelle formule della scienza. La storia è, invece, il regno della vita e del vitale "divenire", dell'intelligente necessità organica e delle particolarità individuali e irripetibili. Protagonista della storia non è tanto l'uomo, quanto la "cultura": riprendendo (ma in modo per più versi unilaterale) un motivo dapprima caratteristico del Romanticismo, e poi da certi studiosi di fine Ottocento (ad esempio Burkhardt), Spengler interpreta la cultura come organismo . Ogni cultura/organismo ha una sua forma peculiare che ne caratterizza tutti gli aspetti costitutivi e che la distingue poi da tutte le altre. Essa ha inoltre una sua nascita, un suo sviluppo secondo un destino necessario e un non meno necessario tramonto. Tale tramonto si realizza appunto quando tutte le sue potenzialità si sono realizzate e a ciò segue un inesorabile processo di decadenza. I momenti estremi di tale vicenda (propria di tutte le culture in quanto tali) vengono indicati da Spengler coi due concetti di "Kultur" e di "Zivilisation": due termini non nuovi (presenti già anche in Kant), ma che Spengler ha contribuito a popolarizzare. La Kultur è la cultura positiva, vitale, non priva di una sana barbarie; la Zivilisation (di cui non deve sfuggire la provenienza lessicale straniera) è invece la cultura raffinata ed estenuata della decadenza internazionale malata e votata alla consunzione. Per Spengler l'Occidente è oramai giunto alla Zivilisation e, dunque, alle soglie del suo inevitabile tramonto. L'unica speranza che si apre a questo punto è quella di un radicale sovvertimento di tutti gli pseudo-valori dell'epoca o dell'intero sistema socio-politico, in grado di ricondurre l'Occidente a un rinnovato stato primitivo.


giovedì 19 aprile 2012

EPICURO: LETTERA SULLA FELICITA'

Epicuro ha diciott’anni quando, con la morte di Alessandro Magno (323 a.C.), comincia l’età ellenistica. La cultura greca si diffonde nell’universo allora noto in Grecia. Contemporaneamente l’impero si sgretola, la “pòlis” si dissolve, la vita pubblica degenera e il cittadino individualizza. Epicuro sviluppa allora un pensiero sulla ricerca della felicità come medicina contro il dolore e la morte. L’etica edonistica di Epicureo, contenuta nella Lettera a Meneceo, va di pari passo con il disimpegno politico. Una vita nascosta diviene condizione necessaria per una saggezza capace di scegliere fra i piaceri. La lettera sulla felicità di Epicuro è un farmaco contro l’angoscia: “Chi sostiene che non è ancora giunto il momento di dedicarsi alla conoscenza della felicità, o che ormai è troppo tardi, è come se andasse dicendo che non è ancora il momento di essere felice, o che ormai è passata l’età. Ecco che da giovani come da vecchi è giusto che noi ci dedichiamo a conoscere la felicità. Per sentirci sempre giovani quando saremo avanti con gli anni in virtù del grato ricordo della felicità avuta in passato, e da giovani, irrobustiti in essa, per prepararci a non temere l’avvenire”. La felicità è l’essenza del divino: “Prima di tutto considera l’essenza del divino materia eterna e felice, come rettamente suggerisce la nozione di divinità che ci è innata. Non attribuire alla divinità niente che sia diverso dal sempre vivente o contrario a tutto ciò che è felice, vedi sempre in essa lo stato eterno congiunto alla felicità”. La morte non va fuggita né invocata: “La morte, il più atroce dunque di tutti i mali, non esiste per noi. Quando noi viviamo la morte non c’è, quando c’è lei non ci siamo noi. Non è nulla né per i vivi né per i morti. Per i vivi non c’è, i morti non sono più. Invece la gente ora fugge la morte come il peggior male, ora la invoca come requie ai mali che vive”. I desideri vanno esaminati e non anzitutto esauditi: “Una ferma conoscenza dei desideri fa ricondurre ogni scelta o rifiuto al benessere del corpo e alla perfetta serenità dell’animo, perché questo è il compito della vita felice, a questo noi indirizziamo ogni nostra azione, al fine di allontanarci dalla sofferenza e dall’ansia”. La ricerca del piacere deve lasciare spazio alla libertà: “Perché non sono di per se stessi i banchetti, le feste, il godersi fanciulli e donne, i buoni pesci e tutto quanto può offrire una ricca tavola che fanno la dolcezza della vita felice, ma il lucido esame delle cause di ogni scelta o rifiuto, al fine di respingere i falsi condizionamenti che sono per l’animo causa di immensa sofferenza”.  Gli dei sono preferibili al destino immutabile: “Piuttosto che essere schiavi del destino dei fisici, era meglio allora credere ai racconti degli dei, che almeno offrono la speranza di placarli con le preghiere, invece dell’atroce, inflessibile necessità”.




sabato 14 aprile 2012

NOMOS E PHYSIS

È in questo periodo che nasce la grande distinzione tra legge naturale o physis e legge dell’uomo o nomos. Fino all’inizio del quinto secolo nel pensiero greco non si avvertiva una sostanziale differenza tra il mondo dell’uomo e il mondo della natura, e quindi si avvertiva un’unità tra le norme che regolano l’armonia della natura e le norme che regolano i rapporti tra i cittadini delle singole polis. Ma nel quinto secolo, con l’imperialismo ateniese e la crisi della guerra del Peloponneso, il nomos divenne sempre più oggetto di critica e di revisione da parte del demos, il popolo. I problemi dell’umanità, a detta della seconda generazione dei sofisti (quella di Antifonte, Ippia, Trasimaco e Crizia), provengono dalla differenza tra nomos e physis. Secondo la sofistica, infatti, come non è possibile trovare un discorso vero per tutti, non è possibile neanche trovare una legge giusta per tutti. Il nomos diventa espressione di interessi di parte e oggetto di contese tra fazioni. L’unica speranza per il cittadino è nel confidarsi alla legge superiore della physis, regolatrice dell’armonia dell’universo. E qui sorgono i problemi. Secondo Antifonte e Ippia,democratici, la legge della physis impone l’uguaglianza dei membri della specie, culminante in una sorta di cosmopolitismo. Secondo Trasimaco e Crizia, aristocratici, la legge predominante della physis è la legge del più forte: il più nobile ha così il diritto di sopraffare il più debole; il nomos non può garantire la giustizia e non dovrebbe fare altro che legalizzare questa sopraffazione. Secondo Crizia anche la religione è strumentale al potere. Ancora più radicale la posizione di Callicle: il nomos è un’invenzione dei deboli per cercare di arginare il giusto predominio dei più forti sancito dalla physis. Ma se il nomos è così lontano dal logos physikos, è para o kata physein? È giusto o sbagliato che ci sia e che gli uomini lo seguano?

venerdì 6 aprile 2012

IL RASOIO DI OCCAM

Il rasoio di Occam è il nome con cui viene contraddistinto un principio metodologico espresso nel XIV secolo dal filosofo e frate francescano inglese William of Ockham (noto in italiano come Guglielmo di Ockham). Tale principio, alla base del pensiero scientifico moderno, nella sua forma più semplice suggerisce l'inutilità di formulare più assunzioni di quelle strettamente necessarie per spiegare un dato fenomeno: il rasoio di Ockham impone di scegliere, tra le molteplici cause, quella che spiega in modo più semplice l'evento. La formula, utilizzata spesso in ambito investigativo e - nel moderno gergo tecnico - di problem solving, recita: “Entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem” non moltiplicare gli elementi più del necessario” . In altri termini, non vi è motivo alcuno per complicare ciò che è semplice. All'interno di un ragionamento o di una dimostrazione vanno invece ricercate la semplicità e la sinteticità. Tra le varie spiegazioni possibili di un evento, è quella più semplice che ha maggiori possibilità di essere vera (anche in base a un altro principio, elementare, di economia di pensiero: se si può spiegare un dato fenomeno senza supporre l'esistenza di qualche ente, è corretto il farlo, in quanto è ragionevole scegliere, tra varie soluzioni, la più semplice e plausibile). Il rasoio di Occam trova spesso luogo in discussioni eminentemente dotte e scientifiche (esempio tipico, nel campo della fisica e della scienza in generale). Concettualmente non si tratta di novità, perché il principio di semplicità era già ben noto a tutto il pensiero scientifico medioevale, ma esso acquista in Occam una forza nuova e per certi versi devastante a causa della sua concezione volontarista: se il mondo è stato creato da Dio solo sulla base della volontà (e non per intelletto e volontà, come diceva Tommaso d'Aquino), devono sparire tutti i concetti relativi a regole e leggi, come quello di sostanza o di legge naturale.


domenica 1 aprile 2012

IL MITO DI OSIRIDE

Era il tempo delle dinastie e Osiride era il quarto dio che regnava in terra, il quarto dopo Shu, Ra e Geb. I suoi predecessori si erano ritirati in cielo stanchi e scoraggiati: non erano riusciti ad educare gli uomini. Solo un dio che accettasse di condividere le sofferenze e la morte segnata nel destino dell’uomo con l’aiuto della moglie – sorella Iside -, insegnò agli uomini a coltivare il grano, a fare la farina e il pane, a pigiare l’uva, a fare con l’orzo una specie di birra e a fabbricare armi. Osiride affiancato dal dio Thoth delle arti e della scienza, inventò i segni della scrittura e si prestò a civilizzare il resto del mondo, lasciando al governo dell’Egitto la moglie Iside. Al suo ritorno il fratello Seth e Aso, la regina dell’Etiopia, avevano ordito una congiura contro di lui: Osiride fu invitato a banchetto e Seth fece costruire un baule con le misure corporee del fratello; questo sarebbe appartenuto a chiunque fosse riuscito ad entrarci del tutto. Tentò anche Osiride, il quale venne subito chiuso ermeticamente da Seth e gettato nelle acque del Nilo. Il cofano raggiunse le spiagge del Biblo ai piedi di una tamerice. Intanto Iside, venuta a sapere dell’accaduto, raggiunse Biblo e si mise a cercare il cofano. Ospite della regina e sua cara amica, svelò il suo essere di dea e riconoscente dell’ospitalità, decise di rendere immortale il principino: ogni notte lo immergeva nelle acque purificatrici, ma invano. La regina ne fu profondamente rattristata, ma allo stesso tempo grata e le avrebbe offerto tutto ciò che avesse voluto. Iside richiese la grande colonna che, il re fece costruire con il tamerice, dove era contenuto il cofano, ne trasse lo scrigno e riempì il tronco di profumi, lo avvolse in aulenti bende e lo lasciò al re e al suo popolo come suo ricordo e preziosa reliquia. Ripresa la via del ritorno, fece fermare la carovana e aprì la cassa. All’apparire del volto del marito, le sue urla riempirono l’aria di dolore; usò tutte le possibili formule magiche per richiamare in vita lo sposo, ma nulla cambiò. Nascose la cassa in un luogo presso Buto tra le paludi del Delta. Ma per caso Seth, andando a caccia di notte lo trovò e apertolo, tagliò il corpo del fratello in 14 pezzi che sparpagliò per tutto l’Egitto. Iside, saputolo, ricominciò la ricerca e riuscì a ricomporre il corpo con l’aiuto della sorella Netis, Thoth e Anubi: quest’ultimo imbalsamò il corpo, confezionò la prima mummia fasciata e ricoperta di talismani; sui muri del sepolcro furono incise le formule magiche di rito e accanto al sarcofago fu deposta una statua a lui somigliante. Compiuto il rito della sepoltura, Iside ritornò a nascondersi nelle paludi per proteggere il nascituro dalle vendette di Seth. Quando Horo nacque, fu protetto con tutto l’amore, crebbe e Osiride tornò sulla terra per farne un soldato. Radunati tutti I suoi fedeli, partì alla ricerca di Seth per vendicare il padre. La battaglia durò tre giorni e tre notti: Horo mutilò Seth, ma questo si trasformò in un enorme maiale nero e ingoiò l’occhio sinistro di Horo. Alla fine Seth stava per soccombere, quando Iside implorò il figlio di risparmiarlo alla sorella Netis. Horo, in uno scatto di ira, tagliò la testa alla madre, ma Thoth la guarì ponendole una testa di mucca. La battaglia non ebbe né vincitori né vinti: Thoth guarì Seth che fu costretto a restituire l’occhio sinistro ad Horo. Tutta la battaglia fu posta nelle mani del giudizio di Thoth, il quale dopo 80 anni, insieme con il Divino Tribunale, sentenziò che Horo avesse il regno del Basso Egitto e Seth quello dell’Alto Egitto.