giovedì 31 maggio 2012

KANT: CRITICA DELLA RAGION PRATICA


Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me. Queste due cose io non ho bisogno di cercarle e semplicemente supporle come se fossero avvolte nell’oscurità, o fossero nel trascendente fuori del mio orizzonte; io le vedo davanti a me e le connetto immediatamente con la coscienza della mia esistenza. La prima comincia dal posto che io occupo nel mondo sensibile esterno, ed estende la connessione in cui mi trovo a una grandezza interminabile, con mondi e mondi, e sistemi di sistemi; e poi ancora ai tempi illimitati del loro movimento periodico, del loro principio e della loro durata. La seconda comincia dal mio io indivisibile, dalla mia personalità, e mi rappresenta in un mondo che ha la vera infinitezza, ma che solo l’intelletto può penetrare, e con cui (ma perciò anche in pari tempo con tutti quei mondi visibili) io mi riconosco in una connessione non, come là, semplicemente accidentale, ma universale e necessaria. Il primo spettacolo di una quantità innumerevole di mondi annulla affatto la mia importanza di creatura animale che deve restituire al pianeta (un semplice punto nell’Universo) la materia della quale si formò, dopo essere stata provvista per breve tempo (e non si sa come) della forza vitale. Il secondo, invece, eleva infinitamente il mio valore, come [valore] di una intelligenza, mediante la mia personalità in cui la legge morale mi manifesta una vita indipendente dall’animalità e anche dall’intero mondo sensibile, almeno per quanto si può riferire dalla determinazione conforme ai fini della mia esistenza mediante questa legge: la quale determinazione non è ristretta alle condizioni e ai limiti di questa vita, ma si estende all’infinito.




martedì 22 maggio 2012

DE CONSOLATIONE PHILOSOPHIAE

Nel De consolatione philosophiae  Boezio cercava nella filosofia una via di consolazione alle proprie disgrazie: in essa, egli immagina di ricevere, durante la prigionia, la visita di una donna che si rivela essere la Filosofia stessa, venuta a consolarlo del suo triste stato e a fornirgliene una spiegazione teleologica. La Filosofia inizia col ricordare a Boezio che ciò che egli sta vivendo lo vive proprio in quanto filosofo: è, infatti, tipica dei veri discepoli della filosofia la tendenza a dispiacere ai perversi. Ciò è dimostrato anche dal fatto che situazioni più o meno analoghe sono state vissute da uomini altrettanto illustri e tra questi la Filosofia ricorda Socrate e lo stesso Seneca, due grandi martiri della filosofia. Proprio in virtù di quanto asserito dalla Filosofia, Boezio si chiede come sia possibile che il mondo premi gli ingiusti mentre la Fortuna si accanisca contro un uomo come lui che ha sempre difeso i diritti dei deboli. A questa angosciata domanda, che chiude il libro I, la Filosofia risponde dicendo che Boezio non deve temere, perché non alla fortuna è affidato il mondo, ma alla divina ragione. Del resto (e ciò è l'argomento del II libro), la felicità non è da ricercarsi nei beni materiali: questi ultimi, infatti, sono tali che per procurarseli l'uomo deve inevitabilmente ricorrere a soluzioni aberranti, stravolgendo il valore delle cose e finendo, così, per uccidere proprio ciò in cui crede. Infatti, l'uomo che vuole superare gli altri in onori, dovrà necessariamente disonorarsi umiliandosi servilmente per ottenere gli onori cui aspira; allo stesso modo, chi cerca la ricchezza dovrà sottrarla a chi la possiede; e ancora, se si vuole una vita all'insegna dei piaceri, si finisce col suscitare ripugnanza. Eppure, la presenza di beni imperfetti implica automaticamente l'idea della perfezione cui i beni imperfetti partecipano. Dante stesso - che nel Convito chiama Boezio suo consolatore e dottore - si ricorderà di queste riflessioni boeziane sulla caducità dei beni terreni, quando nel Paradiso (X, 124-129) allude a Boezio stesso, che l’ha iniziato alla filosofia. Ora, i beni materiali di per sé non sono un male – come già diceva Plotino -, in quanto creati da Dio, ma tali diventano se ci distolgono dai veri beni, quelli di natura spirituale: finchè restiamo all’infimo livello della materialità, vediamo i beni materiali come i supremi; ma non appena ci innalziamo a quelli spirituali, i beni materiali ci appaiono insignificanti e minuti, proprio come quando – per riprendere l’immagine che userà Petrarca nella sua ascesa al monte Ventoso – saliamo in cima ad un monte vediamo piccolissimo ciò che sta sotto e che, prima di salire, ci pareva enorme. La Filosofia conclude quindi che la felicità è Dio stesso, inteso come sommo bene. Fin qui, i primi tre libri; nel libro IV, però, viene sollevata l'inevitabile obiezione: se il mondo è governato da Dio e se Dio è il sommo bene, come mai esiste il male? Si Deus est, unde malum? Così si interroga lo stesso Agostino, e la tematica verrà lasciata in eredità ai pensatori successivi, fino ai giorni nostri (ma, del resto, si Deus non est, unde bonum?). A questa legittima domanda, la Filosofia risponde che ciò che governa tutto è la Provvidenza, ossia la volontà divina stessa, la quale però si serve del Fato, cioè la contingenza relativa alle cose mutevoli. Gli uomini, che non conoscono questo stato di cose, non operano la necessaria distinzione tra fato e provvidenza, sì che il verificarsi del male nel mondo appare ad essi incomprensibile, tanto più quando a farne le spese sono i virtuosi (pensiamo a Socrate e a Seneca). Ma una provvidenza che governa il mondo non annulla la libertà dell'uomo? Boezio utilizza il V libro per dare risposta a questo arduo problema: ciò che governa il mondo è provvidenza, non previdenza; le azioni passate, presenti e future sono in Dio tutte presenti: "se tu volessi valutare esattamente la previsione con cui egli riconosce tutte le cose, dovresti giustamente ritenere che si tratti non di prescienza di cose proiettate nel futuro, ma di conoscenza di un presente che non viene mai meno. Onde si chiama, non previdenza, ma provvidenza" (De consolatione philosophiae).


domenica 13 maggio 2012

DADAISMO

Il Dadaismo è un movimento artistico che nasce in Svizzera nel XX secolo e più esattamente, durante il periodo della prima guerra mondiale (1915-1918). A Zurigo infatti un gruppo di rifugiati intellettuali formato da Richard Huelsenbeck, Hans Richter, Hans Arp, Tristan Tzara, Marcel Janco, ai quali si uniranno Marcel Duchamp e Max Ernst, discutono spesso al Cabaret Voltaire di un'arte nuova che deve stupire con manifestazioni inusuali e provocatorie, così nasce il movimento dada. La parola Dada, che identifica il movimento, non significa nulla e già in ciò vi è una prima caratteristica del movimento: quella di rifiutare ogni atteggiamento razionalistico. Il rifiuto della razionalità è ovviamente provocatorio e viene usato per abbattere le convenzioni borghesi intorno all'arte. Pur di rinnegare la razionalità i dadaisti non rifiutano alcun atteggiamento dissacratorio, e tutti i mezzi sono idonei per giungere al loro fine ultimo: distruggere l'arte. Distruzione assolutamente necessaria per poter ripartire con una nuova arte non più sul piedistallo dei valori borghesi ma coincidente con la vita stessa e non separata da essa. Tipico prodotto dada è il ready-made (già fatti o già pronti), un prodotto ordinario tolto dall'oggetto originario e messo in mostra come opera d'arte. Quindi un'opera d'arte può essere qualsiasi cosa, quindi come conseguenza nulla è arte. L'opera dell'artista non consiste quindi nella sua abilità manuale, ma nelle idee che riesce a proporre. Infatti, il valore dei «ready-made» è solo nell'idea. Abolendo qualsiasi valore alla manualità dell'artista, l'artista, non è più colui che sa fare delle cose con le proprie mani, ma è colui che sa proporre nuovi significati alle cose. Dopo il suo esordio a Zurigo, il Dadaismo si diffonde ben presto in Europa, soprattutto in Germania e a Parigi, arrivando a lambire anche gli Stati Uniti, ma la vita del movimento è abbastanza breve. Del resto non poteva essere diversamente. La funzione principale del dadaismo era quello di distruggere una concezione oramai vecchia e desueta dell'arte. E questa è una funzione che svolge in maniera egregia, ma per poter divenire proposta necessita di una trasformazione, e ciò avvenne tra il 1922 e il 1924, quando il dadaismo scomparve e nasce il surrealismo.

domenica 6 maggio 2012

METAFISICA


Il termine metafisica deriva dal greco metà physikà e identifica tutte quelle cose che sono oltre (metà) la comune sensibilità fisica e oltre la natura (physis). Si può descrivere il concetto del problema metafisico con il problema della definizione dell’essere sia sul piano sensibile che soprasensibile. La parola è stata coniata nel primo secolo d.C. da Andronico da Rodi nel corso dei suoi studi sulle opere di Aristotele. Inizialmente il termine nasce in ambito aristotelico ed è utilizzato prettamente nello studio delle opere del filosofo greco. Col passare dei secoli la "metafisica" assume un'accezione più generale e si slega dalla sua origine, per identificare l'oggetto di studio. La metafisica ha avuto tre diverse accezioni nella storia della filosofia. Nella teologia razionale la metafisica è la totalità dell'esistente e l'assoluto (Dio). Nell'ontologia la metafisica è lo studio dei caratteri fondamentali dell'essere e del senso delle cose. Nella gnoseologia la metafisica è lo studio dei limiti della conoscenza umana.
Metafisica nella filosofia antica. Nella filosofia antica e in quella medievale la metafisica è soprattutto definita come ontologia e gnoseologia. I primi filosofi presocratici sono prevalentemente dei fisici che considerano la realtà visibile o invisibile (reale o ideale) come parte della natura. Per i presocratici esiste soltanto una realtà fisica. E' soltanto con Platone che si inizia a separare il mondo fisico da quello metafisico. Per Platone esiste un mondo reale caratterizzato dalla corruttibilità delle cose ed un mondo ideale (mondo delle idee) dove l’essere è puro. Questa bipartizione della realtà viene successivamente ripresa da Aristotele che pone le basi della concezione medievale della metafisica quale ideale puro e incorruttibile vicino all'assoluto (Dio) superiore ad ogni altra realtà esistente o studio. Nel medioevo la metafisica diventa teologia razionale. 
Metafisica nella filosofia moderna. Nella filosofia moderna la metafisica è collocata ad un livello non raggiungibile dall'uomo a causa dell'incapacità di quest'ultimo di oltrepassare il mondo dei fenomeni reali. L’essere reale non è conoscibile in quanto va oltre la sfera della conoscenza soggettiva dell'uomo. E' soprattutto con il pensiero del filosofo Kant che la metafisica inizia a svolgere la funzione di gnoseologia per ricercare quei concetti puri che sono comuni nella conoscenza umana indipendentemente dall'esperienza, dalla realtà osservata e dalle discipline di studio. 
Metafisica nella filosofia contemporanea. Nel Novecento assume una certa valenza il lavoro di Heidegger che rifiuta ogni dottrina naturalistica per oltrepassare il concetto di metafisica a favore del concetto di pensiero meditativo. In epoca contemporanea il dibattito sulla metafisica è soprattutto epistemologico, ovvero non si discute più sul cosa sia l'essere bensì sul come si debba dire l'essere. Il ruolo della metafisica nel dibattito filosofico viene, infine, svuotato del tutto con il neopositivismo filosofico di Carnap che, analizzando la metafisica con l'analisi logica del linguaggio, elimina il concetto dal dibattito filosofico in quanto non verificabile tramite l'esperienza umana.