L'antitesi ipotizzata da Dilthey tra "spiegazione naturale" e "comprensione storica" si traduce in Oswald Spengler (1880-1936) nella contrapposizione tra "mondo come natura" e "mondo come storia". Spengler non fu tanto un filosofo nel senso rigoroso del termine, quanto piuttosto un ideologo, indubbiamente capace di cogliere certi orientamenti politico-spirituali del suo tempo, ma troppo proclive a sbrigative liquidazioni di determinati princìpi e valori (la libertà, la democrazia) e ad avventati appoggi agli orientamenti razzistici e totalitari approdati ad ultimo al nazismo. Egli, oltre ad altri scritti tra cui è bene ricordare Prussianesimo e socialismo (1919) e L'uomo e la tecnica (1931), è l'autore di una fortunata opera, Il tramonto dell'Occidente , pubblicata tra il 1918 e il 1922, cioè tra gli ultimi mesi della prima guerra mondiale e l'immediato dopoguerra, in un periodo in cui comincia ad accentuarsi (fino a diventare un elemento rilevante della cultura fra le due guerre mondiali) la consapevolezza di vivere in un periodo di crisi. Crisi sociale, economica e politica, in primis, ma anche crisi intellettuale e di valori, insomma delle certezze che l'inizio del secolo aveva ereditato dall'ottimismo ottocentesco (che con il Positivismo aveva raggiunto l'apice): " quello che ci appare più chiaro nei suoi contorni è il 'tramonto dell'antichità', mentre già oggi avvertiamo chiaramente in noi e intorno a noi i primi indizi di un avvenimento ad esso del tutto analogo per corso e durata, che appartiene ai primi secoli del prossimo millennio: il 'tramonto dell'Occidente' ". L'opera di Spengler è emblematica già dal titolo: la crisi e il crollo della Germania vengono interpretati come il tramonto dell'intera civiltà occidentale; in un quadro concettuale che riprende temi della speculazione di Goethe e di Nietzsche, Spengler tenta di rispondere alla domanda pressante sul destino della civiltà europea. Respingendo ogni concezione unitaria dello sviluppo storico, egli afferma la necessità di intendere la storia dell'umanità come esplicazione di una molteplicità di forme differenti, cioè di diverse civiltà dotate ciascuna di una propria vita e di un proprio sviluppo autonomo. Ogni civiltà è un organismo appartenente alla medesima specie e ha quindi una nascita, una crescita, una decadenza e una morte; e come in tutti gli organismi biologici questo ciclo di sviluppo ha il carattere della ineluttabilità, risultando necessariamente determinato dal corredo di possibilità di cui dispone all'inizio del suo sviluppo. Questo è il fondamento di ciò che Spengler chiama " logica organica della storia " , che ha il suo principio nella necessità del destino; e dal dominio della categoria della necessità deriva anche il carattere della risposta che egli dà al problema del futuro della civiltà occidentale. Esso può essere previsto in maniera esatta perché la civiltà occidentale seguirà lo stesso cammino di tutte le altre: " a noi non è data la libertà di realizzare una cosa anziché l'altra. Noi ci troviamo invece di fronte all'alternativa di fare il necessario e di non poter fare nulla. Un compito posto dalla necessità storica sarà in ogni caso realizzato, o col concorso dei singoli o ad onta di essi ". Spengler va quindi in cerca dei sintomi della decadenza dell'Occidente nell'analisi dei fenomeni economici e politici del mondo a lui contemporaneo, e li scorge nell'affermazione della borghesia, nel primato dell'economia sulla politica, nella democrazia, nella crisi dei princìpi religiosi e nella libertà di pensiero: " non esiste una satira più tremenda della libertà di pensiero. Un tempo non si poteva osare di pensare liberamente; ora ciò è permesso, ma non è più possibile. Si può pensare soltanto ciò che si deve volere, e proprio questo viene percepito come libertà ". Se il ciclo evolutivo è lo stesso per tutte le civiltà, è tuttavia diverso il loro corredo di possibilità. Spengler sviluppa qui, in senso radicalmente relativistico , la dottrina di Dilthey dell'autocentralità delle epoche storiche: ogni civiltà rappresenta un mondo a sé, con un proprio linguaggio formale, un proprio simbolismo, una propria concezione della natura e della storia. E' quindi possibile una comprensione effettiva solo nell'ambito di una stessa civiltà, che funge da orizzonte primario e intrascendibile; tra le civiltà non è possibile nessuna comunicazione, dal momento che ogni civiltà crea i propri valori e che tra di esse non vi sono valori comuni. Con l'opera di Spengler, lo storicismo tedesco dell'epoca approdava al relativismo: questo esito, già del resto implicito in Dilthey, spingerà verso tentativi di restaurazione dei valori che ne garantiscano la validità al di là delle singole epoche e culture. Non solo non può esistere una filosofia o una morale di tipo universale-assoluto, ma nessun principio teorico o pratico può pretendere di avere una validità non particolare e non contingente. Spengler riprende e irrigidisce il dualismo natura/storia : la natura è il regno dell'inerte e del "divenuto" , della cieca necessità causale e dell'anonima uniformità esprimibile nelle formule della scienza. La storia è, invece, il regno della vita e del vitale "divenire", dell'intelligente necessità organica e delle particolarità individuali e irripetibili. Protagonista della storia non è tanto l'uomo, quanto la "cultura": riprendendo (ma in modo per più versi unilaterale) un motivo dapprima caratteristico del Romanticismo, e poi da certi studiosi di fine Ottocento (ad esempio Burkhardt), Spengler interpreta la cultura come organismo . Ogni cultura/organismo ha una sua forma peculiare che ne caratterizza tutti gli aspetti costitutivi e che la distingue poi da tutte le altre. Essa ha inoltre una sua nascita, un suo sviluppo secondo un destino necessario e un non meno necessario tramonto. Tale tramonto si realizza appunto quando tutte le sue potenzialità si sono realizzate e a ciò segue un inesorabile processo di decadenza. I momenti estremi di tale vicenda (propria di tutte le culture in quanto tali) vengono indicati da Spengler coi due concetti di "Kultur" e di "Zivilisation": due termini non nuovi (presenti già anche in Kant), ma che Spengler ha contribuito a popolarizzare. La Kultur è la cultura positiva, vitale, non priva di una sana barbarie; la Zivilisation (di cui non deve sfuggire la provenienza lessicale straniera) è invece la cultura raffinata ed estenuata della decadenza internazionale malata e votata alla consunzione. Per Spengler l'Occidente è oramai giunto alla Zivilisation e, dunque, alle soglie del suo inevitabile tramonto. L'unica speranza che si apre a questo punto è quella di un radicale sovvertimento di tutti gli pseudo-valori dell'epoca o dell'intero sistema socio-politico, in grado di ricondurre l'Occidente a un rinnovato stato primitivo.
venerdì 27 dicembre 2013
lunedì 7 ottobre 2013
SPINOZA: LA POLITICA
Seppur nella diversità dei caratteri e dei temperamenti anche contrastanti (a motivo dell'influsso delle emozioni), la tendenza degli uomini è quella di vivere in gruppi, di organizzarsi in società. Vi è un diritto naturale che consiste nell'agire degli uomini ciascuno secondo la propria naturale necessità (ciascun uomo è in diritto di vivere secondo la propria natura necessaria), ma la natura non esclude i bassi istinti, l'odio, la discordia, la malvagità, cosicché, per uscire da questo stato che impedirebbe una civile convivenza e un reciproco rispetto, conviene all'uomo rifarsi a quella comprensione dell'intrinseca razionalità del mondo che gli permette di essere libero seppur costretto nella necessità. Solo in questo modo, diversamente da quanto afferma Hobbes, "ciascun uomo è un Dio per gli altri uomini" (homo homini deus), in quanto è nella ragione che permette di comprendere il vero significato della realtà che si rispecchia la quieta perfezione di Dio: seguendo la ragione, gli uomini scoprono di essere fatti della stessa sostanza di Dio, si allontanano dai bassi istinti che li confondono e si scoprono manifestazioni della sua perfezione. Se dunque lo stato nasce da una necessità razionale che eviti gli svantaggi della vita regolata dai soli istinti, proprio in ragione di questa razionalità i cittadini non devono trasferire allo stato il proprio diritto individuale in modo assoluto e definitivo, ne deriva che la forma di governo auspicata da Spinoza è la democrazia, l'unica in grado di garantire un controllo razionale dei cittadini sull'operato dei governanti.
martedì 20 agosto 2013
EMILE CIORAN
Filosofo e saggista, maestro indiscusso dell'aforisma a cui ha affidato tutti i suoi pensieri (componendo un'opera tanto frammentaria quanto affascinante), questo solitario rumeno è nato l'8 aprile 1911 a Rasinari (Sibiu) in Transilvania.Figlio di un prete ortodosso e della presidentessa dell'associazione locale delle donne ortodosse, si laurea all'Università di Bucarest con una tesi su Bergson. Inizia ad insegnare presso i licei di Brasov e Sibiu: esperienza che ricorderà come catastrofica. Il suo primo libro, che segna l'esordio letterario del suo tormento interiore, è «Al culmine della disperazione» composto nel lontano 1934. Seguono «Il libro delle lusinghe« nel 1936 e «La trasfigurazione della Romania» nel 1937.Nello stesso anno vince una borsa di studio grazie alla quale si reca a Parigi («la sola città del mondo dove si poteva essere poveri senza vergogna senza complicazioni, senza drammi... la città ideale per essere un fallito») da dove non tornerà più in patria.Prima di partire per la Francia pubblica a proprie spese «Lacrime e santi». Nel 1940 esce il suo ultimo libro in romeno «Il tramonto dei pensieri»: da questo momento in poi scriverà solo in lingua francese («lingua adatta per il laconismo, la definizione, la formula...»).Del 1949 è «Sommario di decomposizione» in cui il vitalismo e la ribellione che affioravano negli scritti precedenti lasciano il posto all'annullamento totale allo scetticismo e all'impossibilità assoluta di credere e sperare.Nel 1952 esce «Sillogismi dell'amarezza» raccolta di aforismi corrosivi, mentre del 1956 è uno dei suoi successi più duraturi, successo forse agevolato dal suggestivo titolo, «La tentazione di esistere».Nel 1960 elabora invece «Storia e utopia» in cui si sottolinea come da qualsiasi sogno utopico basato su una presunta età dell'oro, sia essa passata o futura, si scatenino sempre forze liberticide.Del 1964 è «La caduta nel tempo» le cui ultime sette pagine - dichiarerà in una intervista - «sono la cosa più seria che abbia scritto.»In «Il funesto demiurgo», del 1969, approfondisce e chiarisce il suo legame con la tradizione del pensiero gnostico mentre ne «L'inconveniente di essere nati» (scritto nel 1973), fra i libri che ha sempre dichiarato di amare di più, la sua arte del frammento filosofico capace di squarciare il velo delle cose e delle emozioni raggiunge una delle sue vette più alte.La sapienza esistenziale di Cioran si fa d'altronde sempre più scavo analitico e disperante sguardo sul mondo, approdando ad un nichilismo che non conosce confini e che oltrepassa lo stesso orizzonte filosofico per farsi rifiuto concreto della realtà e dell'esistenza. Lo comprova il successivo «Squartamento» (1979), in cui però si intravedono i suoi legami con il pensiero gnostico e orientale, visto come unico approccio davvero autentico alla realtà.Del 1986 è «Esercizi di ammirazione», raccolta di ritratti di personalità della cultura internazionale (da Ceronetti a Eliade a Borges) ma contenente soprattutto un ampio saggio su Joseph de Maistre.Nel 1987 pubblica «Confessioni e anatemi», «... libro-testamento, che testimonia a un tempo di una rottura totale e di una certa serenità fondata sul nulla.»Emil Cioran è morto a Parigi il 20 giugno 1995.
martedì 23 luglio 2013
ERNST JUNGER : TRATTATO DEL RIBELLE
Nei primi anni del secondo dopoguerra Ernst Jünger scrive una preziosa guida alla libertà che uscirà nel 1951 con il titolo enigmatico Der Waldgang (passaggio al bosco), oggi edito in Italia con il titolo Trattato del Ribelle (Adelphi). Nell’antica Islanda il Waldgänger (letteralmente, colui che passa al bosco), è il proscritto che si dà alla macchia e conduce una vita solitaria, libera e rischiosa. Lo scrittore tedesco si rifà a questa tradizione nordica per tracciare la figura del Ribelle, un tipo d’uomo che sceglie di resistere al nichilismo desertificante del nostro tempo. Jünger individua nelle “teorie che tendono ad una spiegazione logica e razionale del mondo”, e nel “progredire della tecnica”, l’origine dell’assedio all’uomo moderno. Com’è possibile salvarsi da questa realtà che annienta l’essere, o perlomeno lo nasconde sotto identità artificiali? La risposta che Junger dà è : Incamminandosi lungo la Via del Bosco… Se la nave, il Titanic, è il simbolo della civiltà tecnologica avanzata in cui trionfano razionalismo, ostentazione volgare, ed automatismo, il Wald /(Selva) è lo spazio sacro in cui l’uomo incontra se stesso, riscoprendo le forze primordiali della vita. Che il mondo della sicurezza borghese invece nega, intimorito dalla natura elementare. Come se si potessero cancellare gli istinti, le pulsioni profonde e la stessa morte (tutto ciò che troviamo nel Bosco), con una scelta razionale. La Selva non è quindi semplicemente un paesaggio naturale, ma soprattutto il simbolo di quella “terra selvaggia” (Wildnis), che ogni uomo ha in sé. In questo senso il bosco può crescere ovunque, sulla nave come nella metropoli moderna e per questo Jünger parla del bosco come di qualcosa di intimo, di segreto, che molti possono ritrovare, lì dove sono, dentro di sé. La parola tedesca heimlich significa appunto segreto, e quindi luogo protetto. Il passaggio al bosco è però anche unheimlich/inquietante : una “escursione perigliosa” , oltre il “meridiano zero del nulla” che comporta un “avvicinamento” alla morte. Come insegnano le dottrine tradizionali, solo nell’estremo pericolo cresce ciò che salva. Nella foresta infatti il Ribelle rinasce ad una vita nuova e più autentica: solo andando verso la morte il singolo, che è “l’uomo libero come Dio l’ha creato, l’uomo che si nasconde in ciascuno di noi”, può vincere la paura dell’annientamento, e quindi ogni altro timore che discende da quella paura. Diventando così un uomo libero, conscio della sua natura principesca e dell’immensità della sua forza che lo mette in relazione con l’Assoluto. Il passaggio al bosco non sembra dunque, come lascia intendere lo stesso Jünger, un regresso al mondo delle madri. Ce lo ricorda Nietzsche: il “ritorno alla natura” non è propriamente un retrocedere ma un andare in alto verso “l’eccelsa, libera, e anche tremenda natura e naturalità, una natura che gioca e può giocare coi grandi compiti”. In definitiva possiamo dire che con il Trattato del Ribelle Jünger ci consegna un’immagine della foresta (che ritroviamo spesso anche nella mitologia e nelle fiabe europee, a testimonianza di quanto sia radicato nel nostro animo il simbolo del bosco), come luogo in cui l’uomo diviene sovrano di sé, ritrovando il contatto con quei poteri che sono superiori alle forze del tempo. E , come afferma Claudio Risé ne L’ombra del potere (Red edizioni), il Waldgänger è una rappresentazione contemporanea dell’archetipo dell’Uomo Selvatico, colui che si salva grazie al suo sapere naturale. La Via del Bosco è dunque il percorso che ogni uomo deve compiere per recuperare la sua “selvatichezza”, e per riscoprire quelle forze ed energie maschili, anche violente ma necessarie alla trasformazione della realtà, che la società grandematerna ha sacrificato sull’altare delle buone maniere.
venerdì 24 maggio 2013
IMMANUEL KANT
Immanuel
Kant nacque a Konigsberg, nella Prussia orientale, nel 1724, da una famiglia di
modeste condizioni economiche. Nel 1732 entrò nel Collegium Friedercianum e dal
1740, per circa sei anni, frequentò i corsi di filosofia, matematica e di
teologia dell'università della sua città natale, dove studiò la dottrina
newtoniana e l'opera di Wolf. Conclusi i suoi studi universitari, Kant divenne
per circa nove anni istitutore presso alcune famiglie nobili in varie località
della Prussia orientale. Nel 1755 ottenne la libera docenza all'università di
Konigsberg, dove tenne dei corsi liberi, finché nel 1770 non gli venne
assegnata la cattedra ufficiale di filosofia, cattedra che conservò fino al
1796. Gli ultimi anni del suo insegnamento furono segnati da un contrasto sorto
con il governo prussiano, che gli vietò l'insegnamento di alcune dottrine
religiose presentate in un suo scritto. Morì a Konisberg nel 1804. La prima fase della produzione di Kant è
caratterizzata dall'interesse verso le scienze e la filosofia naturale,
nell'intento di descrivere i fenomeni senza dover ricorrere a cause puramente
ipotetiche. Nella Storia universale della natura e teoria del cielo, sotto
l'influsso di Newton, questi applica le forze di attrazione e repulsione per
elaborare una teoria meccanicistica riguardante la formazione dell'universo,
senza la necessità di dover ricorrere ad argomenti teologici al fine di
spiegare i fenomeni naturali. Alle opere di argomento scientifico, segue una
serie di scritti tesi a tentare una riorganizzazione della filosofia, nei quali
vanno progressivamente delineandosi i temi di quella che sarà poi la filosofia
trascendentale kantiana. Qui Kant si propone di cercare un metodo filosofico
rigoroso per approdare ad una certezza metafisica che sia paragonabile a quella
raggiunta nell'ambito delle scienze sperimentali. Egli critica la metafisica
tradizionale, contrapponendole una metafisica intesa come scienza dei limiti
della ragione. Nella Critica della ragion pura Kant si propone di sottoporre a
giudizio la ragione umana. Per critica della ragion pura qui si intende
l'indagine rigorosa "della facoltà della ragione riguardo a tutte le
conoscenze a cui può aspirare indipendentemente da ogni esperienza", al
fine di poter stabilire la possibilità di una metafisica come scienza. La
conoscenza dovuta all'esperienza è detta a posteriori, mentre quella che è
indipendente dall'esperienza è detta a priori. Solo la conoscenza a priori è
universale e necessaria. La conoscenza si compone di una materia (le
impressioni sensibili derivanti dall'esperienza) e da una forma (l'ordine e
l'unità che le nostre facoltà conferiscono alla materia). La conoscenza
scientifica, come opera nella matematica e nella fisica, è una sintesi a
priori, vale a dire che contiene giudizi sintetici a priori, dove sintetico
significa che il predicato aggiunge qualcosa di nuovo al soggetto, e a priori
vuol dire universale e necessario e perciò non derivante dall'esperienza.
L'opera ha quindi lo scopo di rispondere alla domanda come siano possibili
giudizi sintetici a priori, ovvero come è possibile la scienza, visto che opera
con simili giudizi. Tali "condizioni di possibilità" della scienza e
della conoscenza risiedono negli elementi a priori che ordinano le impressioni:
l'oggetto dell'esperienza risulta da una sintesi tra un dato della sensibilità
e un elemento a priori e Kant chiama tale oggetto fenomeno. La Critica della
ragion pura vuole indagare gli elementi formali, o trascendentali, della
conoscenza, dove con trascendentale si intende una conoscenza "che si occupa
non di oggetti, ma del nostro modo di conoscenza degli oggetti". Tale
inversione nel rapporto conoscitivo per cui è l'oggetto ricevuto dalla
sensibilità e pensato dall'intelletto che si adegua al soggetto conoscente e
non viceversa viene definita da Kant la rivoluzione copernicana del pensiero.
La Critica della ragion pura si divide nell'estetica trascendentale e nella
logica trascendentale, la quale è a sua volta suddivisa in analitica
trascendentale (analitica dei concetti e analitica dei princìpi) e dialettica
trascendentale. L'estetica trascendentale determina le forme pure della
sensibilità, entro cui le sensazioni sono ordinate. Queste sono le intuizioni
pure di spazio e di tempo, che possiedono una realtà empirica ed una idealità
trascendentale, condizionando il modo delle cose di apparire a noi. Se la
sensibilità è recettività, l'intelletto è spontaneità e la sua attività è il
giudizio. Ne deriva che pensare altro non è che giudicare. La logica
trascendentale astrae dal contenuto empirico e tratta dei concetti puri, o
categorie dell'intelletto. L'attività dell'intelletto si esplica nel giudicare
secondo classi (quantità, qualità, relazione, modalità) che si articolano in
funzioni intellettuali, le dodici categorie: unità, realtà, sostanzialità e inerzia,
possibilità e impossibilità, molteplicità, negazione, causalità e dipendenza,
esistenza e inesistenza, totalità, limitazione, comunanza e reciprocità di
azione, necessità e casualità. Per applicare le categorie agli oggetti
dell'esperienza occorre il passaggio della deduzione trascendentale. Se infatti
nella sensibilità il molteplice dell'esperienza viene ordinato secondo le
intuizioni di spazio e di tempo, nell'intelletto il molteplice dato dalla
sensibilità deve sottomettersi "alle condizioni dell'unità sintetica
originaria dell'appercezione": l'Io penso. Il pensiero di un oggetto
mediante i concetti dell'intelletto può diventare conoscenza solo se
relazionato agli oggetti dei sensi. Questo significa che pensare e conoscere
non sono la stessa cosa: un oggetto può essere pensato tramite le categorie, ma
tale oggetto pensato può essere conosciuto solo mediante le intuizioni
sensibili di spazio e tempo. L'analitica dei princìpi insegna ad applicare i
concetti ai fenomeni, e questo implica che sia trovata una mediazione tra
sensibilità e intelletto, tra intuizione e concetto. Occorre cioè un terzo
termine, omogeneo con il concetto, che è intellettuale, e con il fenomeno, che
è sensibile: si tratta dello schema trascendentale, un prodotto
dell'immaginazione. L'immaginazione configura nel tempo (che è a priori come le
categorie dell'intelletto e intuibile come le forme pure della sensibilità),
secondo le varie categorie, il materiale fornito dalla sensibilità. La
dialettica trascendentale intende dimostrare che i giudizi sintetici a priori
valgono solo per le cose come appaiono, per i fenomeni. I giudizi sintetici a
priori risultano pertanto illegittimi se applicati alle cose in sé, che Kant
definisce noumeni e ci dice essere inconoscibili. Ne deriva che se le categorie
hanno una funzione costitutiva nella conoscenza, le tre idee di anima, mondo e
Dio, fondamento del sapere metafisico, hanno solo una funzione regolatrice e
sono pensate dalla ragione, che a differenza dell'intelletto non opera sui dati
sensibili, gli unici veramente conoscibili. La ragione tende ad unificare i
dati interni attraverso l'idea di anima, i dati esterni attraverso l'idea di
mondo e a fondare tutto l'esistente nell'idea di Dio. L'errore nasce se la
ragione pretende di entificare, di trasformare cioè in enti reali, queste idee
di cui non abbiamo alcuna esperienza, traendone una conoscenza, la metafisica
tradizionale, che è illusoria poiché pretende di andare oltre i limiti
dell'esperienza sensibile. Risulta perciò negativa la risposta alla domanda
iniziale, ossia se sia possibile una metafisica come scienza. Scopo della
Critica della ragion pratica è la ricerca delle condizioni della morale.
Nell'uomo è presente una legge morale (un fatto della ragione) che comanda
quale imperativo categorico, vale a dire incondizionatamente. Questa legge del
dovere comanda per la sua forma di legge, come norma che prescrive di obbedire
alla ragione, e perciò a differenza della massima (che regola la condotta
individuale) deve essere universale, principio oggettivo valido per tutti:
indica come fine il rispetto della persona umana e afferma l'indipendenza della
volontà come pure l'autonomia della ragione. Il dovere per il dovere indirizza
quindi a quell'ordine morale, il regno dei fini, in cui il valore di un'azione
dipende dalla conformità della volontà alla prescrizione della legge morale. I
postulati della legge sono innanzitutto e fondamentalmente la libertà (se
l'uomo non fosse libero non ci sarebbe moralità), l'immortalità dell'anima
(poiché nel nostro mondo non si realizza mai la piena concordanza della volontà
alla legge che rende degni del sommo bene) e l'esistenza di Dio (che fa
corrispondere la felicità al merito acquisito). Così le idee della ragione
(anima e Dio), solo pensabili nella Critica della ragion pura, ora si
presentano come postulati della moralità. Tra il mondo dei fenomeni, di cui si
dà scienza, e il regno dei fini, sottratto al determinismo e del tutto libero,
c'è eterogeneità, eppure il mondo noumenico (cioè "pensato quale deve
essere secondo i dettami della legge morale") deve avere qualche riflesso
su quello sensibile perché la libertà possa attuarvisi. L'attività del
giudizio, argomento della Critica del giudizio, deve proprio scorgere questo
riflesso del regno dei fini sul mondo fenomenico e lo può fare in due modi:
quale giudizio determinante o quale giudizio riflettente. Il caso del giudizio
determinante è quello del giudizio gnoseologico e morale, in cui è già data una
norma universale che permette all'intelletto e alla volontà di determinare il
particolare, ossia il dato della scienza o l'azione della morale, sussumendolo
sotto le categorie dell'intelletto o sotto la legge morale (per esempio: la
combustione del legno è dovuta al fuoco; questa azione è giusta). L'esigenza
del giudizio riflettente consiste nel fatto che, dato il molteplice empirico, è
necessario trovare il suo principio unitario, la finalità della natura,
formulato dalla facoltà di giudizio riflettendo su se medesima e sulla propria
esigenza di unità. Il giudizio riflettente può essere di tipo estetico,
riguardante cioè la bellezza, e di tipo teleologico, o finalistico, riguardante
cioè gli scopi della natura: entrambi si fondano sulla finalità, vale a dire su
un rapporto di armonia e di accordo reciproco fra parti, e non hanno valore
conoscitivo.
venerdì 26 aprile 2013
POSITIVISMO
E'
una corrente di pensiero che interessò l'Europa negli anni che vanno dal
1848-1870 circa. Il Termine POSITIVISMO indica il proposito di rifiutare le
tendenze astratte, metafisiche, spiritualistiche proprie del romanticismo e di
prendere invece in esame i fatti positivi concreti ed analizzarli alle luce
della scienza. Il positivismo cerca di capire il mondo partendo unicamente
dalla scienza alla quale si riconosce la capacità di giudicare gli uomini verso
il progresso e di costruire una società
al più alto grado di giustizia e benessere. La scienza è ritenuta capace di
dominare la natura per cui e considerata: GARANZIA INFALLIBILE DEL DESTINO
DELL'UOMO. Su questa base il positivismo ritiene che: L'unica conoscenza che
l'uomo ha di tutto il mondo è di tipo scientifico costruita attraverso
l'osservazione dei fenomeni, la formulazione di ipotesi e la loro verifica
sperimentale. La scienza deve essere assolutamente indipendente dalla
religione. Ogni manifestazione della natura e dell'uomo sono spiegabili
scientificamente. Per il positivismo è possibile analizzare scientificamente la
società umana come un qualsiasi organismo scoprire la leggi che la regolano ed
è possibile anche individuare attraverso la scienza le cure più adatte a
superare i problemi della società. Questa ideologia ottimista è legata al
periodo storico nel quale le invenzioni e scoperte scientifiche si susseguirono
con un ritmo sempre più rapido assicurando all'uomo il dominio sulla natura ed
un continuo sviluppo economico. Proprio per questo suo ottimismo che da alla
ragione il positivismo è avvicinabile all'illuminismo. Tuttavia l'illuminismo
era stato l'arma della borghesia europea per abbattere i pregiudizi ed i
privilegi e per creare una società migliore; la borghesia del secondo '800
invece non ha di fronte a se l'assolutismo e la nobiltà ma il proletariato a
cui si vuole impedire il raggiungimento dei propri diritti. Il Positivismo non
possiede più quella carica rivoluzionaria dell'Illuminismo. La vera grande
novità del positivismo è quella di estendere il metodo sperimentale a tutti i
rami del sapere, dalla filosofia alla storia, dall'arte alla letteratura e addirittura
alla realtà umana perché si riteneva che anch'essa fosse retta, come la realtà
fisica, da leggi naturali. Il positivismo nacque in Francia nell'ambiente del
politecnico e l'iniziatore della dottrina fu: AUGUSTO COMTE, che fu anche il
fondatore della sociologia, disciplina che studia in modo scientifico la
società umana come se fosse un organismo naturale. Il metodo scientifico
applicate anche con rigore nell'antropologia, portò l'Inglese DARWIN a
formulare LA TEORIA DELL'EVOLUZIONISMO E DELLE SUE LEGGI cioè l'adattamento
all'ambiente e la selezione naturale. Darwin quindi studiò l'uomo non più come
entità spirituale ma come ultimo anello della catene naturale. Questa teoria fu
osteggiata dalla chiesa che invece sosteneva il CREAZIONISMO FISSISTA.
Importante fu anche il critico letterario storico Ippolito Taine che vedeva
negli uomini solo un prodotto di fattori ereditari dell'ambiente; egli inoltre
riteneva applicabile il metodo scientifico anche all'arte contribuendo alla
nascita del NATURALISMO FRANCESE. Il positivismo portò ad un cambiamento anche
la letteratura sottolineando l'esigenza di un'arte ispirata al vero, lucida
oggettiva che ritraesse anche gli aspetti negativi della società.
giovedì 14 marzo 2013
KARL POPPER: EPISTEMOLOGIA
Popper
ha descritto la genesi della sua teoria della conoscenza come il risultato di
un confronto, da lui operato in età giovanile, tra la teoria della relatività
di Einstein, da una parte, e la psicoanalisi e il marxismo dall'altra. Mentre
queste ultime si presentano come teorie capaci di spiegare qualunque fenomeno
di loro pertinenza e, quindi, come inconfutabili, la teoria di Einstein
fornisce l'indicazione di esperimenti possibili che potrebbero confermarla o
confutarla. Partendo da questa constatazione, Popper sviluppa nella Logica
della scoperta scientifica una delle teorie scientifiche. Le teorie
scientifiche sono costituite da asserzioni universali (ipotesi o leggi) e si
ritiene che si arrivi ad esse attraverso un processo di induzione , che parte
da asserzioni singolari, cioè da resoconti dei risultati di osservazioni o
esperimenti. Ma, come già si era chiesto Hume, è giustificabile logicamente
l'inferenza di asserzioni universali da asserzioni particolari, per quanto
numerose queste siano? Secondo Popper la risposta è no: dal fatto che molti
cigni sono bianchi non si può concludere che "tutti i cigni sono
bianchi". Popper respinge, dunque, la logica induttiva; ma così facendo
non si elimina ogni distinzione tra al scienza, che è la conoscenza autentica,
e la metafisica? In realtà, a suo avviso, è il criterio di verificazione,
sostenuto dai neopositivisti, che non fornisce un criterio di demarcazione
adeguato tra esse, in quanto consente di concludere che il linguaggio della
metafisica è privo di senso ma finisce per distruggere anche le scienze della
natura. Esso presuppone, infatti, che solo asserzioni empiriche elementari,
cioè resoconti di osservazioni di eventi singolari, permettono di decidere in
modo conclusivo della verità o falsità di asserzioni generali, ossia delle
leggi scientifiche. Ma se non è logicamente ammissibile l'inferenza da
asserzioni singolari a teorie generali, le teorie non potranno mai essere
verificate empiricamente; bisogna, dunque, individuare un criterio che permetta
di accogliere entro le scienze empiriche anche asserzioni non verificabili. Dal
punto di vista della storia delle scoperte scientifiche, alcune idee
metafisiche sono state di ostacolo, ma altre, come per esempio l'atomismo, sono
state fruttuose. Popper propone, quindi, un altro criterio di demarcazione tra
scienza e ciò che non è scienza: si tratta del metodo dei controlli , per cui è
scientifico solo un sistema che possa essere controllato dall'esperienza. Tale
criterio non esige che un sistema sia capace di essere scelto una volta per
tutte ma richiede soltanto che esso possa esser confutato dall'esperienza, cioè
sia falsificabile. Popper precisa che la falsificabilità non è un criterio di
significato, ovvero non distingue tra quel che ha senso e quel che non ha
senso, come avviene con il principio di verificabilità dei neopositivisti, ma
traccia una linea di demarcazione all'interno del linguaggio significante. Le
asserzioni universali, in cui consistono le teorie, non possono essere derivate
da asserzioni singolari, ma possono essere controllate da queste. Il che
significa che le asserzioni base, ossia le asserzioni di un fatto singolare
(per esempio, che un determinato cigno è nero) possono servire come premesse di
una falsificazione. Ma anche queste asserzioni base devono essere controllate
inter-soggettivamente; esse, infatti, non hanno quello stato privilegiato di
certezza attribuito loro dai neopositivisti. Le osservazioni e gli esperimenti
e i resoconti di essi non sono neutrali, ma sono sempre condotti e interpretati
alla luce delle teorie. Per questo, secondo Popper, è sempre ingannevolmente
facile trovare verificazioni di una teoria: così avviene con il marxismo e con
la psicoanalisi, che interpretano ogni fenomeno come verifica positiva della
loro teoria. Nella scienza, invece, non possono esserci asserzioni definitive,
non più controllabili inter-soggettivamente, ossia non confutabili. Questo non
vuol dire che, prima di essere accettata, ogni asserzione scientifica debba
essere di fatto controllata, ma solo deve poter essere controllata. Per
chiarire in che consista la falsificabilità, Popper precisa che le asserzioni
base, che devono servire a falsificare una teoria, hanno la forma di asserzioni
singolari esistenziali. La negazione di un'asserzione strettamente universale
(per esempio, "Non tutti i corvi sono neri") equivale a un'asserzione
strettamente esistenziale (per esempio, "Esiste almeno un corvo che non è
nero"). Le leggi di natura hanno la forma di asserzioni strettamente
universali, del tipo: "Tutti i corvi sono neri", e, quindi, sono
esprimibili come negazioni di asserzioni strettamente esistenziali (ossia,
"Non esiste alcun corvo che non sia nero"). Le leggi di natura sono
pertanto paragonabili a dei divieti: esse, anziché asserire che qualcosa esiste
o accade, lo negano. Le asserzioni strettamente universali non sono dunque
verificabili, perché la loro verificazione richiederebbe una esplorazione
esaustiva del mondo in ogni tempo per stabilire che qualcosa non esiste, non è
mai esistito e non esisterà mai. Se invece è vera una sola asserzione singolare
che infrange ciò che la legge proibisce o esclude, allora la legge risulta
confutata. Questo significa che una teoria è falsificabile se la classe di
tutte le asserzioni base, con le quali essa è in contraddizione o che essa
esclude o vieta, non è vuota: queste asserzioni base vietate dalla teoria sono
dette falsificatori potenziali di essa. Quanto più una teoria vieta, tanto
maggiore è il contenuto di informazioni che essa fornisce e ciò è connesso
appunto dall'ampiezza della classe dei suoi falsificatori potenziali. Per
scegliere tra teorie bisogna, dunque, tener conto del loro grado di
falsificabilità, il quale consiste appunto nel numero maggiore o minore di
falsificatori potenziali. Le leggi scoperte nell'indagine scientifica sono
sempre ipotesi, ma la cosa essenziale non è tanto discutere quanto sia
probabile un'ipotesi, bensì valutare a quali controlli e prove ha resistito,
mostrando la sua capacità di collaborazione . A determinare il grado di
collaborazione interviene più che il numero dei casi a favore, la severità dei
controlli, che dipende dalla semplicità dell'ipotesi più semplice, ossia
falsificabile in grado più alto, è anche quella corroborabile a un grado più
alto. La conclusione di Popper è che solo la confutabilità o falsificabilità
distingue le teorie scientifiche dalla metafisica. In questo senso, egli non
può essere scambiato per un neopositivista, che si sia limitato a sostituire la
verificabilità con la falsificabilità.
venerdì 15 febbraio 2013
COSMOGONIA
La cosmogonia in mitologia
è l’insieme dei miti sull’origine dell’universo.
I miti cosmogonici riguardano in particolare l’origine della Terra
e dei corpi celesti, ma possono comprendere tutto ciò che, vivente o meno, si
trova nell’universo. Non di rado tali miti non implicano una generazione dal
nulla, ma presuppongono l’unione o combinazione di elementi preesistenti, o la
loro separazione da un amalgama indistinto. Rappresentazioni del cosmo increato
sono ricorrenti in tradizioni mitologiche diverse, che lo raffigurano come un vuoto,
un’oscurità, un mare, un caos di elementi informi, una figura umana o un “uovo
cosmico” contenente ogni cosa in forma embrionale.
Talvolta l’origine del mondo è spiegata come il frutto di un accoppiamento di
tipo sessuale, ad esempio quello di Urano,
il cielo, con Gea,
la Terra (la quale è infatti non di rado identificata con la Dea Madre, matrice
e grembo di tutte le cose), o di una nascita di tipo animale come quella
simboleggiata nella figura dell’uovo cosmico, diffusa in molte culture, dalle
religioni di Africa, Cina, India, Giappone, Pacifico meridionale all’orfismo
greco. In altri miti il creato ha origine dalla separazione o
dall’emergere delle cose da un elemento indistinto, come le acque primordiali
(anche in questo caso l’identificazione con la gravidanza e il parto è
evidente; in un mito dei dogon
dell’Africa occidentale si fa riferimento alla “placenta del mondo”) o un mare
di latte; un mito polinesiano pone i vari stadi dell’emersione all’interno di
una noce di cocco; per i navajo
e gli hopi
l’emersione indica una progressione verso l’alto da mondi inferiori; nei miti
diffusi tra le popolazioni siberiano-altaiche, ma anche in Romania e in India,
la creazione scaturisce dall’azione di un animale (tartaruga o uccello) che si
tuffa nelle acque primordiali per portare alla superficie un pezzetto di terra
che in seguito si espande fino a diventare il mondo. Un motivo
dominante di svariati miti cosmogonici è l’atto sacrificale o cruento: il
creato è il frutto di una crisi violenta, quale la lotta tra forze personali o
impersonali, oppure di una morte, come lo smembramento di Prajapati, narrato
nei Veda,
o del gigante Ymir, ucciso da Odino
nella mitologia
nordica. I miti cosmogonici possono riflettere i
caratteri ambientali propri di una particolare cultura: in Mesopotamia
il timore di inondazioni provocate dal Tigri e dall’Eufrate aveva conferito
all’azione delle acque un ruolo importante, tanto che esse, personificate dalla
dea Nammu, erano poste all’origine degli dei e del cosmo; similmente, nell’antico Egitto
il dio Nu impersonava sia le acque primordiali sia il fiume Nilo. Talvolta
le cosmogonie ricalcano simbologie alimentari, come nel mito del mare di latte,
da cui gli dei dell’India ricavarono i tesori del mondo frullandolo come per
farne burro, o nei miti cinesi
e vietnamiti, nei quali il mondo viene modellato come un pane di riso e il
cielo lo contiene come una ciotola.
giovedì 17 gennaio 2013
PAOLO CREPET: PERCHE' SIAMO INFELICI
Se
so che devo morire non capisco perché devo essere felice. La differenza tra
l'uomo e l'animale sta tutta in questa consapevolezza, per cui l'infelicità è
l'elemento costitutivo della condizione umana, che un tempo le religioni e oggi
le psicoterapie o i ritrovati farmacologici cercano inutilmente di
narcotizzare. Ma si può davvero pensare di reperire la felicità attraverso la
negazione del tratto caratteristico della condizione umana? E allora, come
scrive opportunamente Edoardo Boncinelli in perché siamo infelici
"L'infelicità non è un accidente, è un destino". Oltre a Boncinelli,
che affronta il problema dal punto di vista genetico, il libro ospita gli
interventi di eminenti psichiatri e psicoanalisti quali Maurizio Andolfi,
Vittorino Andreoli, Eugenio Borgna, Bruno Callieri e Paolo Crepet che cura
questa raccolta dei saggi, il cui intento è di smascherare i falsi rimedi che
ogni giorno ci vengono proposti da quanti traggono profitto dall'infelicità
diffusa, per vendere quelle che già Eschilo chiamava "cieche speranze
(thuphlás elpídas)". Con la chiarezza dello scienziato che non si fa
incantare dalle cieche speranze, Boncinelli ci avverte che la natura ci genera
per la continuità della specie e non per la felicità dell'individuo. Ma
affinché gli individui non si demotivino una volta raggiunta questa
consapevolezza, la natura provvede a quella serie di inganni che sono i
desideri dell’individuo, i suoi progetti, i suoi investimenti, i suoi
entusiasmi, particolarmente vividi nell'età giovanile che è poi la stagione più
feconda per la generazione. "Resisteremmo infatti fino all'età
riproduttiva - il traguardo che interessa alla natura - se non avessimo questa
sorta di imbroglio da bambini, che non ci fa vedere perfettamente le asperità
del mondo?" - si domanda Boncinelli e risponde: "Sono sicuro di no.
Abbiamo una fase transitoria, ma lunga, di minore lucidità e ringraziamo Iddio.
Altrimenti sono convinto che molta gente abbandonerebbe questo mondo ben prima
della morte naturale". A questa infelicità di base, che possiamo chiamare
"biologica" se ne aggiunge una "culturale", determinata dal
fatto che l'individuo promuove desideri, progetti, investimenti che, scrive
sempre Boncinelli, sono "una molla alla base di tutta la civiltà e di
tutta l'evoluzione culturale, ma anche una palla al piede, uno sconforto, uno
sconcerto, un amplificare l'infelicità su tutta la vita", perché i nostri
desideri sono quasi sempre sproporzionati alla nostra capacità di
realizzazione, e lo scarto tra il desiderio e la sua realizzazione è la fonte
di una nuova infelicità. Su questo tema ritornano le bellissime pagine di
Eugenio Borgna che, dopo aver esaminato tutte le forme patologiche di felicità
e di infelicità, e i rimedi farmacologici che attutiscono i sintomi ma non
danno un orizzonte di senso, affonda radicalmente lo sguardo sulla condizione
tragica dell’uomo che non può vivere senza una produzione di senso, in vista
della morte che è l'implosione di ogni senso. Colta nella sua dimensione
abissale, questa infelicità non è curabile con i farmaci, ma è possibile
attenuarla attraverso un'intensificazione delle relazioni interpersonali, da
quelle affettive a quelle di cura, recuperando quel tratto costitutivo dell’essenza
dell’uomo che la natura prevede come "animale sociale". Ma che tipo
di società è quella che ci circonda? Una società che ci riempie di oggetti da
consumare, scrive Paolo Crepet, che stanno al posto di relazioni mancate. Una
società che misura la felicità sui redditi invece che sulla circolazione dei
sentimenti, fino al punto, sempre in nome dei redditi, di fare dell'infelicità un
business. Infatti, scrive Crepet: "assistenti sociali, religiosi,
psicologi, psicoterapeuti, psichiatri, filosofi, organizzazioni di
volontariato, farmacologi, perfino le prostitute vedrebbero i loro ricavi
ridursi se, d'un colpo o per magia, la maggior parte degli infelici cessassero
di esserlo". Per non parlare poi del controllo sociale che trae un
indiscutibile vantaggio dall'infelicità: "perché è più facile controllare
persone rassegnate e impotenti, piuttosto che vitali e ideative".
Sull'infelicità collettiva vivono anche le religioni che "promettono una
felicità post mortem", garantendosi in tal modo la sopportazione dell'infelicità
su questa terra, fino a indurre a vivere i momenti di felicità con un mal
celato senso di colpa, perché assaporare la felicità su questa terra potrebbe
ridurre la fede nell'al di là. Ma, osserva opportunamente Crepet, non meno
insidioso è il messaggio sotteso a ogni forma di pubblicità che, per invitarci
a consumare, ci dice Life is now (la vita è adesso). E se la religione si
alimenta di infelicità proiettando la felicità in un altro mondo, la cultura
del nostra società, concentrandosi sul presente, esclude che il futuro della
vita individuale e sociale possa essere migliore di quello attuale. Ma se
questa è la condizione umana, non è che per vivere bisogna frequentare e almeno
in parte corteggiare la nostra follia? Questo è il messaggio dello psichiatra
Vittorino Andreoli secondo il quale: "Per vivere bisogna essere fuori
dalla realtà, essere dunque come i folli che l'hanno dimenticata, per poter
sopportare di stare al mondo e di continuare a essere uomini, uomini senza
senso, perché di fatto la condizione umana non ne ha alcuno".