Due cose riempiono
l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più
spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato
sopra di me, e la legge morale in me. Queste due cose io non ho bisogno di
cercarle e semplicemente supporle come se fossero avvolte nell’oscurità, o
fossero nel trascendente fuori del mio orizzonte; io le vedo davanti a me e le
connetto immediatamente con la coscienza della mia esistenza. La prima comincia
dal posto che io occupo nel mondo sensibile esterno, ed estende la connessione
in cui mi trovo a una grandezza interminabile, con mondi e mondi, e sistemi di
sistemi; e poi ancora ai tempi illimitati del loro movimento periodico, del
loro principio e della loro durata. La seconda comincia dal mio io
indivisibile, dalla mia personalità, e mi rappresenta in un mondo che ha la
vera infinitezza, ma che solo l’intelletto può penetrare, e con cui (ma perciò
anche in pari tempo con tutti quei mondi visibili) io mi riconosco in una
connessione non, come là, semplicemente accidentale, ma universale e
necessaria. Il primo spettacolo di una quantità innumerevole di mondi annulla
affatto la mia importanza di creatura animale che deve restituire al
pianeta (un semplice punto nell’Universo) la materia della quale si formò, dopo
essere stata provvista per breve tempo (e non si sa come) della forza vitale.
Il secondo, invece, eleva infinitamente il mio valore, come [valore] di una intelligenza,
mediante la mia personalità in cui la legge morale mi manifesta una vita
indipendente dall’animalità e anche dall’intero mondo sensibile, almeno per
quanto si può riferire dalla determinazione conforme ai fini della mia
esistenza mediante questa legge: la quale determinazione non è ristretta alle
condizioni e ai limiti di questa vita, ma si estende all’infinito.
giovedì 31 maggio 2012
martedì 22 maggio 2012
DE CONSOLATIONE PHILOSOPHIAE
Nel
De consolatione philosophiae Boezio
cercava nella filosofia una via di consolazione alle proprie disgrazie: in
essa, egli immagina di ricevere, durante la prigionia, la visita di una donna
che si rivela essere la Filosofia stessa, venuta a consolarlo del suo triste
stato e a fornirgliene una spiegazione teleologica. La Filosofia inizia col
ricordare a Boezio che ciò che egli sta vivendo lo vive proprio in quanto
filosofo: è, infatti, tipica dei veri discepoli della filosofia la tendenza a
dispiacere ai perversi. Ciò è dimostrato anche dal fatto che situazioni più o
meno analoghe sono state vissute da uomini altrettanto illustri e tra questi la
Filosofia ricorda Socrate e lo stesso Seneca, due grandi martiri della
filosofia. Proprio in virtù di quanto asserito dalla Filosofia, Boezio si
chiede come sia possibile che il mondo premi gli ingiusti mentre la Fortuna
si accanisca contro un uomo come lui che ha sempre difeso i diritti dei deboli.
A questa angosciata domanda, che chiude il libro I, la Filosofia risponde
dicendo che Boezio non deve temere, perché non alla fortuna è affidato il
mondo, ma alla divina ragione. Del resto (e ciò è l'argomento del II libro), la
felicità non è da ricercarsi nei beni materiali: questi ultimi, infatti, sono
tali che per procurarseli l'uomo deve inevitabilmente ricorrere a soluzioni
aberranti, stravolgendo il valore delle cose e finendo, così, per uccidere
proprio ciò in cui crede. Infatti, l'uomo che vuole superare gli altri in
onori, dovrà necessariamente disonorarsi umiliandosi servilmente per ottenere
gli onori cui aspira; allo stesso modo, chi cerca la ricchezza dovrà sottrarla
a chi la possiede; e ancora, se si vuole una vita all'insegna dei piaceri, si
finisce col suscitare ripugnanza. Eppure, la presenza di beni imperfetti
implica automaticamente l'idea della perfezione cui i beni imperfetti
partecipano. Dante stesso - che nel Convito chiama Boezio suo
consolatore e dottore - si ricorderà di queste riflessioni boeziane sulla
caducità dei beni terreni, quando nel Paradiso (X, 124-129) allude a
Boezio stesso, che l’ha iniziato alla filosofia. Ora, i beni materiali di per
sé non sono un male – come già diceva Plotino -, in quanto creati da Dio, ma
tali diventano se ci distolgono dai veri beni, quelli di natura spirituale:
finchè restiamo all’infimo livello della materialità, vediamo i beni materiali
come i supremi; ma non appena ci innalziamo a quelli spirituali, i beni
materiali ci appaiono insignificanti e minuti, proprio come quando – per
riprendere l’immagine che userà Petrarca nella sua ascesa al monte Ventoso –
saliamo in cima ad un monte vediamo piccolissimo ciò che sta sotto e che, prima
di salire, ci pareva enorme. La Filosofia conclude quindi che la felicità è Dio
stesso, inteso come sommo bene. Fin qui, i primi tre libri; nel libro IV, però,
viene sollevata l'inevitabile obiezione: se il mondo è governato da Dio e se
Dio è il sommo bene, come mai esiste il male? Si Deus est, unde malum?
Così si interroga lo stesso Agostino, e la tematica verrà lasciata in eredità
ai pensatori successivi, fino ai giorni nostri (ma, del resto, si Deus non
est, unde bonum?). A questa legittima domanda, la Filosofia risponde che
ciò che governa tutto è la Provvidenza, ossia la volontà divina stessa,
la quale però si serve del Fato, cioè la contingenza relativa alle cose
mutevoli. Gli uomini, che non conoscono questo stato di cose, non operano la
necessaria distinzione tra fato e provvidenza, sì che il verificarsi del male
nel mondo appare ad essi incomprensibile, tanto più quando a farne le spese
sono i virtuosi (pensiamo a Socrate e a Seneca). Ma una provvidenza che governa
il mondo non annulla la libertà dell'uomo? Boezio utilizza il V libro per dare
risposta a questo arduo problema: ciò che governa il mondo è provvidenza,
non previdenza; le azioni passate, presenti e future sono in Dio tutte
presenti: "se tu volessi valutare esattamente la previsione con cui
egli riconosce tutte le cose, dovresti giustamente ritenere che si tratti non
di prescienza di cose proiettate nel futuro, ma di conoscenza di un presente
che non viene mai meno. Onde si chiama, non previdenza, ma provvidenza"
(De consolatione philosophiae).
domenica 13 maggio 2012
DADAISMO
Il Dadaismo è un movimento artistico che nasce in
Svizzera nel XX secolo e più esattamente, durante il periodo della prima
guerra mondiale (1915-1918). A Zurigo infatti un gruppo di rifugiati
intellettuali formato da Richard Huelsenbeck, Hans Richter, Hans Arp, Tristan
Tzara, Marcel Janco, ai quali si uniranno Marcel Duchamp e Max Ernst, discutono
spesso al Cabaret Voltaire di un'arte nuova che deve stupire con manifestazioni
inusuali e provocatorie, così nasce il movimento dada. La parola Dada, che
identifica il movimento, non significa nulla e già in ciò vi è una prima
caratteristica del movimento: quella di rifiutare ogni atteggiamento razionalistico.
Il rifiuto della razionalità è ovviamente provocatorio e viene usato per
abbattere le convenzioni borghesi intorno all'arte. Pur di rinnegare la
razionalità i dadaisti non rifiutano alcun atteggiamento dissacratorio, e tutti
i mezzi sono idonei per giungere al loro fine ultimo: distruggere l'arte.
Distruzione assolutamente necessaria per poter ripartire con una nuova arte non
più sul piedistallo dei valori borghesi ma coincidente con la vita stessa e non
separata da essa. Tipico prodotto dada è il ready-made (già fatti o già
pronti), un prodotto ordinario tolto dall'oggetto originario e messo in mostra
come opera d'arte. Quindi un'opera d'arte può essere qualsiasi cosa, quindi
come conseguenza nulla è arte. L'opera dell'artista non consiste quindi nella
sua abilità manuale, ma nelle idee che riesce a proporre. Infatti, il valore
dei «ready-made» è solo nell'idea. Abolendo qualsiasi valore alla manualità
dell'artista, l'artista, non è più colui che sa fare delle cose con le proprie
mani, ma è colui che sa proporre nuovi significati alle cose. Dopo il suo
esordio a Zurigo, il Dadaismo si diffonde ben presto in Europa, soprattutto in
Germania e a Parigi, arrivando a lambire anche gli Stati Uniti, ma la vita del
movimento è abbastanza breve. Del resto non poteva essere diversamente. La
funzione principale del dadaismo era quello di distruggere una concezione
oramai vecchia e desueta dell'arte. E questa è una funzione che svolge in
maniera egregia, ma per poter divenire proposta necessita di una trasformazione,
e ciò avvenne tra il 1922 e il 1924, quando il dadaismo scomparve e nasce il surrealismo.
domenica 6 maggio 2012
METAFISICA
Il
termine metafisica deriva dal greco metà physikà e identifica tutte quelle cose
che sono oltre (metà) la comune sensibilità fisica e oltre la natura (physis).
Si può descrivere il concetto del problema metafisico con il problema della
definizione dell’essere sia sul piano sensibile che soprasensibile. La parola è
stata coniata nel primo secolo d.C. da Andronico da Rodi nel corso dei suoi
studi sulle opere di Aristotele. Inizialmente il termine nasce in ambito
aristotelico ed è utilizzato prettamente nello studio delle opere del filosofo
greco. Col passare dei secoli la "metafisica" assume un'accezione più
generale e si slega dalla sua origine, per identificare l'oggetto di studio. La
metafisica ha avuto tre diverse accezioni nella storia della filosofia. Nella
teologia razionale la metafisica è la totalità dell'esistente e l'assoluto
(Dio). Nell'ontologia la metafisica è lo studio dei caratteri fondamentali
dell'essere e del senso delle cose. Nella gnoseologia la metafisica è lo studio
dei limiti della conoscenza umana.
Metafisica nella
filosofia antica. Nella filosofia antica e in quella medievale la metafisica è
soprattutto definita come ontologia e gnoseologia. I primi filosofi
presocratici sono prevalentemente dei fisici che considerano la realtà visibile
o invisibile (reale o ideale) come parte della natura. Per i presocratici
esiste soltanto una realtà fisica. E' soltanto con Platone che si inizia a
separare il mondo fisico da quello metafisico. Per Platone esiste un mondo
reale caratterizzato dalla corruttibilità delle cose ed un mondo ideale (mondo
delle idee) dove l’essere è puro. Questa bipartizione della realtà viene
successivamente ripresa da Aristotele che pone le basi della concezione
medievale della metafisica quale ideale puro e incorruttibile vicino
all'assoluto (Dio) superiore ad ogni altra realtà esistente o studio. Nel
medioevo la metafisica diventa teologia razionale.
Metafisica nella
filosofia moderna. Nella filosofia moderna la metafisica è collocata ad un
livello non raggiungibile dall'uomo a causa dell'incapacità di quest'ultimo di
oltrepassare il mondo dei fenomeni reali. L’essere reale non è conoscibile in
quanto va oltre la sfera della conoscenza soggettiva dell'uomo. E' soprattutto
con il pensiero del filosofo Kant che la metafisica inizia a svolgere la
funzione di gnoseologia per ricercare quei concetti puri che sono comuni nella
conoscenza umana indipendentemente dall'esperienza, dalla realtà osservata e
dalle discipline di studio.
Metafisica
nella filosofia contemporanea. Nel Novecento assume una certa valenza il lavoro
di Heidegger che rifiuta ogni dottrina naturalistica per oltrepassare il
concetto di metafisica a favore del concetto di pensiero meditativo. In epoca
contemporanea il dibattito sulla metafisica è soprattutto epistemologico,
ovvero non si discute più sul cosa sia l'essere bensì sul come si debba dire
l'essere. Il ruolo della metafisica nel dibattito filosofico viene, infine,
svuotato del tutto con il neopositivismo filosofico di Carnap che, analizzando
la metafisica con l'analisi logica del linguaggio, elimina il concetto dal
dibattito filosofico in quanto non verificabile tramite l'esperienza umana.