Carl
Gustav Jung nasce a Kesswil, sul lago di Costanza (Svizzera) il 26 luglio 1875.
Figlio di un pastore protestante, consegue la laurea in Medicina e nel 1900
entra a lavorare nell' ospedale psichiatrico di Zurigo. Attraverso gli studi di
medicina si avvicina alla psichiatria. Per alcuni anni è uno degli allievi
prediletti di Sigmund Freud, che lo fa avvicinare alla
psicoanalisi. Jung diviene forte sostenitore delle teorie del maestro, tuttavia
appaiono presto delle divergenze tra i due, profondamente diversi nel
carattere. Nel 1912 - con la pubblicazione del suo volume "Trasformazioni
e simboli della libido" - il rapporto tra Jung e Freud si interrompe. Lo
svizzero inizia a elaborare una nuova teoria, detta poi psicologia analitica,
che rispetto alle teorie freudiane, si caratterizza per una maggiore apertura
verso gli elementi non razionali della psiche. Jung è persona di grande cultura:
studia a fondo i temi mitologici, letterari e religiosi di tutti i tempi e di
tutti i paesi. Viaggia molto: a partire dal 1920 visita Africa, India e Nord
America. Nel 1921 pubblica il saggio "Tipi psicologici". Durante il
suo peregrinare entra in contatto con numerose popolazioni di cui studia miti,
rituali, usi e costumi. Oltre all'inconscio personale del singolo individuo,
Jung è convinto esista anche un inconscio collettivo comune agli uomini di
tutti i tempi. I contenuti di questo inconscio collettivo, nel corso dei secoli
si sarebbero espressi in immagini, miti e credenze religiose che egli ritrova,
in modo identico, nelle culture di popoli di epoche e luoghi diversi. Nelle sue
teorie gli archetipi - che chiama "immagini originarie" - rivestono un
ruolo fondamentale. Gli archetipi sono contenuti inconsci che fungono da
produttori e ordinatori di rappresentazioni: una sorta di modello presente in
modo innato nella psiche dell'essere umano. Nel 1930 viene nominato presidente
onorario della "Società tedesca di psicoterapia"; dopo l' avvento del
nazismo (1933) non dà le dimissioni, collabora invece con Hermann Göring, fino al 1940, alla
riorganizzazione della Società. Ai viaggi e all'elaborazione della psicologia
analitica, Jung affianca una intensa attività terapeutica, che svolge nei
pressi di Zurigo. Qui fonda un istituto che porta il suo nome (Carl Gustav Jung
Institut): fa costruire una torre, luogo simbolo di rifugio e di meditazione.
Insegna teoria e metodi di quella che, per distinguerla dalla psicoanalisi
freudiana, è ormai definita "psicologia analitica". Nel 1944 pubblica
"Psicologia e alchimia", ma nello stesso anno subisce un incidente,
una frattura e un successivo infarto. In coma, vive un'esperienza di pre-morte
che descriverà poi nel testo autobiografico "Ricordi, sogni e
riflessioni". Nel 1952 pubblica importanti scritti sulla "teoria
della Sincronicità". A partire dagli anni '40 si occupa anche di un nuovo
fenomeno, che andava intensificandosi sempre di più, soprattutto dopo la fine
della seconda guerra mondiale: l'ufologia. Dopo una breve malattia, muore
il 6 giugno 1961, nella sua casa sul lago a Bollingen.
domenica 29 luglio 2012
domenica 22 luglio 2012
KARMA
Karma è un termine sanscrito
(traducibile grossolanamente come agire,
azione) che indica presso le filosofie orientali il principio di azione/reazione che regola la vita di tutto ciò che è
manifesto nell'universo, vincolando le anime al Saṃsāra (il ciclo di morti e rinascite). Il
concetto di Karma è centrale nell'Induismo,
nel Buddhismo,
nel Sikhismo
e nel Jainismo.
In Occidente
si diffuse nel corso del XIX secolo, divulgato dalla Società
Teosofica, ed è al centro di molte discipline New Age.
Nel Neopaganesimo,
e nella Wicca
in particolare, il Karma è legato alla genesi della Rede (Finché non fai del male a nessuno, fa' ciò
che vuoi) e della Legge del tre. La cosiddetta "Regola
d'oro" nel cristianesimo. Induismo. Il Karma riguarda sia l'attività o agire in sé sia
l'insieme delle conseguenze delle azioni compiute da un individuo nelle vite
precedenti. Secondo il principio del Karma le azioni del corpo, della parola e
dello spirito (i pensieri) sono insieme causa e conseguenza di altre azioni:
niente è dovuto al caso, ma ogni avvenimento, ogni gesto è legato insieme da
una rete di interazioni di causa/effetto. Il principio del Karma è valido
esclusivamente all'interno del mondo materiale (prakriti) e del ciclo di nascita e morte (Saṃsāra). Se si produce sofferenza o si
interferisce negativamente con il Dharma o legge universale, si produce Karma negativo; se si fa
del bene, si produce karma positivo. Nelle vite successive (o nella vita
corrente) si dovrà pagare o si verrà ripagati per le azioni compiute
precedentemente. Il Karma Yoga è uno dei modi di ottenere Moksha ovvero
la liberazione. Buddismo.
Il Karma (sanscrito: pāli
kamma, cinese: pinyin: yè, giapponese:
gō, tibetano:
las) è un "principio
universale" secondo il quale un' "azione virtuosa" (che non
produce sofferenza) genera benefici nelle vite successive, mentre un'azione
"non virtuosa" (che produce sofferenza) genera fastidi e disagi nelle
vite successive. Il Karma,
dunque, vincola tutti gli esseri senzienti al ciclo del Samsāra
poiché tutto ciò che l'essere farà, si ripercuoterà nella vita futura. Quando
viene compiuta un'azione non virtuosa, viene depositato nella vita stessa dei
"semi" o "residui" (sans. vāsanā) ) in seguito alla produzione di karma negativo. Quando viene compiuta un'azione virtuosa invece,
viene prodotto karma positivo.
Questi residui allungheranno la permanenza dell'esistenza nel Samsāra. Esiste
però un tipo di Karma - che,
effettivamente, "non è" Karma
- che non è né positivo né negativo, quello che porta alla
"liberazione" (Vimukti).
Ogni manifestazione degli esseri senzienti possiede una certa quantità di
"semi del Karma", che finché non verranno esauriti, li costringeranno
a permanere nel ciclo del Samsāra. Questi "semi" sono frutto di azioni
compiute da innumerevoli vite precedenti. Essi non possono diminuire ma possono
essere distrutti con il raggiungimento dell'illuminazione (Bodhi). Con l'estinzione
del debito karmico, l'essere non sarà più vincolato al Karma e quindi al Samsāra
e potrà raggiungere il Nirvana. Il significato e il ruolo
attribuito alla dottrina del Karma
varia a seconda degli insegnamenti delle differenti scuole buddhiste. L'atto
nel Buddhismo, e solo in esso, si identifica con l'intenzione (cetana)
allorché un gesto compiuto o un pensiero elaborato (prayatna) senza intenzione non produce Karma, spietato o umano che sia. Al contrario, la sola
intenzione che non si traduca in gesto o pensiero produce karma e poiché
l'intenzione neutra (avyakrta)
non può logicamente esistere essa è la sola a produrre karma secondo
l'insegnamento buddhista. Condizionata dalla sola esistenza (bhava), la nascita (jati) delle intenzioni non è
reversibile e niente di ciò che esiste (tranne
il nirvana) che sia una divinità, una pratica rituale, un rimorso, un
rimpianto o la morte potrà impedire che se ne formi il frutto, che maturi e che
si riversi sull'agente nelle condizioni determinate solo e solamente dall'atto
medesimo. Per cui l'implacabile responsabilità personale va ricondotta sempre
alle vite precedenti per una piena comprensione ed eventualmente distruzione
degli atti medesimi, siano essi positivi (kusala) o negativi (akusala).
domenica 15 luglio 2012
KIERKEGAARD
Kierkegaard Sören
Aabye, filosofo danese (Copenaghen 1813 – 1855). Profondamente
segnato dall'educazione di un padre austero e devoto e dalla rottura del
fidanzamento con Regina Olsen, medita sull'esistenza per arrivare a cambiare la
propria. Kierkegaard intende la ricerca filosofica non solo come un'attività
del pensiero, ma come una manifestazione di vita, per cui la sua esistenza
tormentata e le sue polemiche con la Chiesa protestante si riflettono nella sua
opera, che fu molto copiosa e pubblicata sotto pseudonimi diversi. Egli
scrisse: Il concetto dell'ironia (1841), Il diario di un seduttore , compreso
originariamente in Aut-Aut (1843), Timore e tremore (1843), La ripetizione
(1843), Gli stadi sul cammino della vita (1845), di cui in italiano è tradotta
solo una parte dal titolo In vino veritas , un diario dal titolo Colpevole -non
colpevole , una lettera al lettore sotto lo pseudonimo di Fratel Taciturnus,
nella quale viene enunciata la teoria dei tre stadi dell'esistenza (estetico,
etico, religioso); Briciole di filosofia (1844), Il concetto dell'angoscia
(1846), Postilla conclusiva non scientifica (1846), La malattia mortale (1849).
Il titolo di una delle opere fondamentali, Aut-Aut , richiama alla posizione di
Kierkegaard nei confronti della filosofia hegeliana, nell'ambito della quale
bisogna respingere il concetto di conciliazione degli opposti, I 'et-et , in
quanto ci sono alternative che non sono conciliabili, ma si escludono l'una con
l'altra: le alternative possibili della vita non si lasciano conciliare nella
continuità di un unico processo nel quale agisce tutta la realtà. La realtà non
è lo Spirito assoluto nel quale gli opposti si conciliano: è l'uomo, il “me”,
per il quale si presenta continuamente l'esigenza di una scelta tra due
possibilità inconciliabili, per cui il realizzarsi dell'una esclude il
realizzarsi dell'altra e la nullifica. Questo concetto di possibile, che
Kierkegaard riconduce alle dimensioni esistenziali, e toglie al dominio della
logica, è nuovo nella filosofia moderna, ed ha il suo antecedente solo nella
filosofia platonica. La possibilità come categoria dell'esistenza umana è
sempre possibilità che sì o possibilità che no; nella dimensione logica invece
il possibile ha un senso positivo, perché è semplicemente “ il non impossibile
”. Kierkegaard ne mette in luce l'aspetto negativo, paralizzante: è sempre
possibile scegliere fra due possibilità, ma tanto l'una che l'altra, comunque
io scelga, possono e non possono realizzarsi. È un'alternativa fra l'essere e
il nulla, e l'atto della scelta ha sempre valore esistenziale, in quanto solo
dopo la scelta si saprà se la possibilità è reale o no. Prima non c'è alcuna
garanzia, il nulla è la minaccia costante sull'esistenza umana. Il sentimento
che scaturisce dalla consapevolezza del carattere nullificante della scelta è
tipico dell'uomo, e caratterizza i suoi rapporti col mondo esterno: è il sentimento
dell'angoscia. Uno degli elementi originali di Kierkegaard consiste nell'avere
posto in luce l'uomo come singolo essere, solo con se stesso. Malgrado
polemizzi con Hegel, Kierkegaard non si pone al di fuori dell'hegelismo, perché
si avvale di concetti hegeliani, in quanto si esprime in termini di “ assoluto
”, “ totalità ”, “ finito-infinito ”, “ essere-nulla ”, anche se essi vengono
utilizzati in una prospettiva antihegeliana. L'opera principale di Kierkegaard:
“Aut-Aut” ha come oggetto il passaggio dallo stadio estetico della vita allo
stadio etico. Colui che vive in una dimensione estetica si affida
all'immaginazione senza progettare la sua esistenza oltre l'attimo immediato:
esempio di questo stile di vita è Don Giovanni, di cui Kierkegaard parla a proposito
di Mozart, o Giovanni, il protagonista del “Diario di un seduttore”. Il
seduttore sembra realizzare una sorta di destino eroico, anche la sua fine è
negativa, poiché questa fine è l'ultimo atto di un'esistenza vissuta in una
dimensione estetica assoluta, in cui non c'è nulla di banale. L'analisi di
opere di teatro in cui spiccano figure femminili (Margherita nel Faust, Elvira
nel Don Giovanni mette in risalto l'amore come centro dell'esistenza
estetizzante, la quale conduce necessariamente all'infelicità poiché ha in sé i
germi di una crisi che la destina al naufragio. Non occorre porsi su un piano
etico o religioso per condannare questo tipo di esistenza: la condanna è
interna, perché la vita senza storia, senza ripetizione, senza impegno non può condurre
che alla noia e al disprezzo della vita: alla disperazione. L'estetismo è
distruzione della personalità, e non è libertà ma schiavitù perché pone il suo
interesse in ciò che non dipende dall'esteta, cioè nel piacere, che gli viene
comunque da altri. La disperazione è l'ansia di una vita diversa, un'altra
alternativa possibile. Non bisogna sottrarsi alla disperazione, ma accettarla,
viverla fino in fondo, sceglierla. Se l'esteta avrà il coraggio di compiere una
scelta alternativa, perverrà alla vita etica. Anche in essa l'amore è un fatto
centrale, ma è realizzato non nell'attimo, ma nella continuità, nella
ripetizione, all'interno dell'istituzione del matrimonio. Caratteristica della
vita etica è la scelta che l'uomo fa di sé stesso, scelta assoluta, di tutto sé
stesso, in quanto chi accetta l'eticità della vita imprime un indirizzo stabile
e costante alla propria esistenza, e sta a lui, non al caso, fare progetti e
realizzarli. Egli sceglie la propria personalità; sostituendola al capriccio, e
si pone in rapporto con gli altri, si riallaccia all'umanità. Scegliendosi,
l'uomo si dà una storia che non è tutta positiva, ha pure momenti crudeli,
errori, di cui egli si pente senza poterli annullare. In questo concetto del
pentimento comincia a rivelarsi l'altra scelta, quella che è al di là
dell'etica: lo stadio religioso, argomento di “ Timore e tremore ”. Kierkegaard,
analizzando il sacrificio di Abramo, che è conforme al volere di Dio ma
contrario alle leggi dell'etica, prospetta il passaggio dallo stadio etico a
quello della fede, in cui non c'è garanzia umana a convalidare la scelta, e in
cui la condizione umana si configura nella solitudine più deserta della
coscienza, che è in rapporto unicamente con Dio. Nulla garantisce questo
passaggio, che non è un passaggio ma un salto, e non si fonda sulla ragione,
come la scelta dell'etica, ma sulla fede. L'angoscia, la disperazione, il
sentimento dell'assurdo, caratterizzano questo salto nel buio: l'uomo che
sceglie la fede fa una scommessa sull'assurdo ed è assolutamente solo davanti a
Dio.
domenica 8 luglio 2012
ESISTENZIALISMO
La
domanda centrale delle problematiche esistenzialiste è: “che cos’è l’essere?”.
Essa può essere posta in altri modi: cos’è che determina la nostra esistenza?
Perché c’è l’uomo invece del nulla? L’essere è un concetto unico da cui
derivano tutte le sue manifestazioni (l’uomo, le cose, ecc.)? Heidegger, che
per primo si pose compiutamente la domanda, intuì che diversamente da quanto
affermato in tutta la storia della metafisica l’essere non va confuso con l’ente:
in altre parole, l’essere non è Dio o le Idee platoniche, concetti ontologici,
manifestazioni fisiche più che metafisiche. L’essere è un concetto e non può
essere oggettivato. Il filosofo Gabriel Marcel pose l’accento sul fatto che
l’esistenza non è un problema, bensì un mistero. Un problema è infatti un
qualcosa che si pone davanti a noi come un ostacolo e di cui noi possiamo
perlomeno delimitarne la portata e quindi comprenderlo in via di massima.
L’esistenza non si pone di fronte a noi, è anche in noi stessi, ci penetra, e
dunque noi siamo sia soggetti che oggetti della domanda “che cos’è l’essere?”.
Heidegger spiegava questo concetto in questo modo: di ogni cosa noi possiamo
dire cos’è categorizzandola, possiamo farla rientrare in un insieme (il cane è
parte dell’insieme ‘animali’, per intenderci). Ma il concetto di essere non può
venire categorizzato, perché esso stesso è l’insieme più ampio di tutti, di cui
tutti gli altri insiemi fanno parte. Il fatto quindi che l’essere è sia in noi
che fuori di noi non ci permette di dare mai una risposta definitiva al
problema (o, meglio, al mistero). Questa questione è meglio marcata nelle
riflessioni di Sartre, il quale alla domanda dà tre risposte: la prima, la più
evidente, è che l’essere sia costituito dall’insieme di tutti gli esseri - cose
e persone - presenti nel contesto spazio-temporale in cui viviamo; la seconda è
che l’essere sia quello che Sartre chiama il per-sè, cioè la nostra coscienza,
il nostro io che si pone come altro rispetto al resto del mondo, è soggetto e
non oggetto; infine può essere in-sè, ossia l’essere nelle cose e nei fenomeni
che ci appaiono, negli oggetti che ci circondano, a cui però diamo un senso
noi, e quindi in qualche modo derivano da noi. Nessuna di queste tre è una
risposta completa: l’essere, per Sartre, è come se si manifestasse in parte in
ogni cosa ma si cela sempre nella sua compiutezza. Heidegger e Jaspers
indicarono tuttavia una semi-risposta al quesito. Il fatto che noi ci poniamo
la domanda “che cos’è l’essere?”, il fatto che andiamo alla ricerca di una
risposta e indaghiamo la realtà nel cercarla è già di per sè una risposta. Si
può dire, quindi, che si è, si esiste nel momento in cui ci si pone la domanda
“perché esisto?”, “che cosa significa esistere?”. In questo modo, infatti, noi
esistiamo perché il significato etimologico di esistere è ex-sistere, cioè in
latino “essere fuori da”: in qualche modo cerchiamo di uscire fuori da noi
stessi e guardare l’essere come qualcosa di altro, che non ci appartiene, lo
analizziamo “fuori da noi” e questo è già un primo passo.
lunedì 2 luglio 2012
DRUIDI
Le notizie che abbiamo sui
druidi differiscono a seconda degli autori e delle epoche, ma più che
contraddirsi esse si completano. I druidi erano essenzialmente dei sacerdoti
che presiedevano alle cerimonie del culto e soprattutto celebravano i
sacrifici. Scandivano il tempo secondo atavici rituali. Tutta la concezione del
tempo, per i Celti, era regolata sulle fasi della luna, patrona della fecondità
della terra e delle donne, basata su quattro grandi eventi stagionali. Tutte le
conoscenze e i segreti erano appannaggio dei druidi. E' possibile che
all'inizio, essi formassero un'unica classe ma poi la loro organizzazione si
sviluppò, divenne più complessa e perciò si articolò in classi diverse. Una di
queste riuniva in Gallia i Vates, specializzati in sociologia, in storia e in
scienze naturali, per finire, vi furono ai margini della collettività druidica,
i Bardes, sorta di poeti-cantastorie ufficiali della società celtica e nello
stesso tempo, cronisti. Infatti, in un'epoca in cui non esistevano i giornali,
gli avvenimenti erano divulgati da interminabili cantilene che il popolo
ascoltava con passione. Nella gerarchia irlandese, invece, a fianco dei druidi,
compaiono i Filid, che svolgevano in qualche modo le funzioni scientifiche e
poetiche ed erano quanto a dignità uguali ai druidi, nonché disposti secondo
una rigida gerarchia. Non a caso la parola 'druido' significa 'molto saggio'.
Gli antichi avevano sentito parlare di loro fin dal IV sec. a.C. e avevano un
profondo rispetto per le loro conoscenze e la loro effettiva saggezza. Tuttavia,
non si ha alcun testo che riassuma l'insegnamento dei druidi, ma sappiamo che,
senza essere esoterico o segreto, esso era riservato agli allievi delle loro
scuole, specie relative a seminari agresti, lontani dall'agitazione del mondo e
frequentati soprattutto dai figli dell'aristocrazia. Com'è ben noto, la quercia
per i druidi era particolarmente sacra, poiché vi si raccoglieva il vischio. I
boschi, più ancora dei laghi e dei fiumi, erano luoghi di presenza divina. Il
bosco era a tal punto parte integrante della cultura dei Celti che per loro non
era possibile dissociarlo dagli sforzi per abbattere il nemico. Per i Romani
abbattere i santuari forestali dei Celti era importante quanto sconfiggerne le
truppe sul campo di battaglia. La visione della vita che i Celti acquisivano
per mezzo dell'insegnamento druidico, l'assenza di paura per la morte e
dell'aldilà, non si spiegherebbero senza una credenza radicata nell'immortalità
dell'anima e nella possibilità per l'uomo di conoscere le forme di esistenza
più diverse. Infatti il loro amore per la vita in tutte le sue manifestazioni,
la loro apertura verso tutte le esperienze, rivela in loro il senso dell'unità
del cosmo, più di duemila anni prima che la scienza moderna, con tutte le sue tecniche,
avesse solo cominciato a supporla. I druidi rappresentavano il cardine
dell'unità dell'impero spirituale celtico, i promulgatori dell'armonia e della
sapienza, i signori degli elementi (acqua, fuoco, vento, terra). Fu proprio per
questo che i conquistatori romani arrivarono a sopprimerne la casta e proibire
le loro riunioni e il culto, per colpire al cuore la società celtica.