Charles-Luis de Secondat , barone di Montesquieu, era figlio di Jacques de
Secondat, barone di Montesquieu (1654-1713) e di Marie- Françoise de Pesnel,
baronessa di la Brède (1665-1696): nacque da una famiglia di magistrati
appartenenti alla cosiddetta nobiltà di toga, nel castello di la Brède, nei
pressi di Bordeaux. Montesquieu fu sempre fiero del nome che portava. Dopo aver
frequentato il collegio di Juilly e seguito gli studi di diritto, divenne nel
1714 consigliere del parlamento di Bordeaux. Nel 1715 sposò Jeanne de Lartigue,
una giovane di religione protestante proveniente da una ricca famiglia di
recente nobiltà che gli portò una grossa dote. Alla morte dello zio nel 1716
ereditò una vera fortuna, con la carica di Presidente del parlamento di Bordeaux
e la baronia di Montesquieu. Abbandonate le cariche appena possibile, si
interessò al mondo ed al divertimento. In quell'epoca l'Inghilterra s'era appena
costituita in monarchia costituzionale in seguito alla Gloriosa rivoluzione
(1688 – 1689) e si era unita alla Scozia nel 1707 per formare la Gran Bretagna.
Nel 1715 il Re Sole era morto dopo un lunghissimo periodo di regno e gli era
succeduto un re più debole. Queste trasformazioni nazionali lo influenzarono
molto e ad esse si riferirà sovente nelle sue opere. La sua passione per le
scienze lo condusse ad esperimenti scientifici (anatomia, botanica, fisica,
etc). Egli scrisse su questi argomenti tre comunicazioni scientifiche. Quindi
orientò la sua curiosità verso la politica e l'analisi della società attraverso
la letteratura e la filosofia. Nel 1721 pubblicò anonimamente ad Amsterdam le
"Lettere persiane" che conobbero un notevole successo. Dopo la sua elezione
nella Académie française (1728) si dedicò ad una serie di lunghi viaggi
attraverso l'Europa: Austria, Ungheria, Italia (1728), Germania (1729), Olanda
ed Inghilterra (1730) nella quale soggiornò più di un anno. In questi viaggi si
occupò attentamente della geografia, della economia della politica e dei costumi
dei paesi che visitava. Nel 1734, pubblicò una riflessione storica intitolata
Considérations sur les causes de la grandeur des Romains et de leur décadence
(Considerazioni sulle cause della grandezza dei romani e della loro decadenza),
coronamento dei suoiviaggi, e raccolse numerosi documenti per preparare l'opera
della sua vita: De l'esprit des lois (Lo spirito delle leggi) Pubblicato in
forma anonima nel 1748 questo capolavoro ebbe un successo enorme. Esso
stabilisce i principi fondamentali delle scienze economiche e sociali e
concentra tutta la sostanza del pensiero liberale. Il libro ebbe un successo
particolare in Gran Bretagna. A seguito degli attacchi che il suo scritto subì,
Montesquieu pubblicò nel 1750 la Défense de l'Esprit des lois (Difesa dello
spirito delle leggi). Dopo la pubblicazione del Lo spirito delle leggi
Montesquieu fu circondato da un vero e proprio culto. Afflitto dalla quasi
totale perdita della vista, riuscì a partecipare comunque all'Enciclopedia. Morì
a causa di una forte infiammazione. Il suo capolavoro filosofico è Lo spirito
delle leggi , che vide la luce nel 1748 . Anche dopo la pubblicazione , continuò
a rielaborare l' opera fino al 1755 , anno in cui morì . Uno scritto giovanile
di Montesquieu, Le lettere persiane del 1721 , presenta i caratteri consueti a
molte opere appartenenti al primo illuminismo , in cui la critica alla società è
ancora celata dalla finzione letteraria : in questo romanzo epistolare si
immagina un gruppo di persiani in visita a Parigi che descrivono tramite lettere
ai loro corrispondenti iraniani vita e costumi di una società cattolica e
assolutistica, con sguardo distaccato, nella loro nuda oggettività:l' ovvio e il
quotidiano diventano l'assurdo e il grottesco e il lettore viene abituato all'
ottica del relativismo culturale : la Francia e l' Europa non sono più il centro
, ma solo un angolo del mondo ; ciò che a noi europei pare banale e ovvio perchè
ci siamo abituati , agli Iraniani sembrerà ridicolo e bislacco .Una simile
operazione , naturalmente , la si potrà compiere con un cinese o con un
pellerossa . Ma nelle successive Considerazioni sulle cause della grandezza dei
Romani e della loro decadenza (1734) , sia pure in uno stile ancora brioso e
letteralmente efficace , Montesquieu muta registro. Alla critica del costume
subentra un' analisi critica della storia romana , nella quale l' autore non si
limita alla ricostruzione filologica (in questo anzi consegue risultati talvolta
dubbi) , ma tenta di ricercare i principi politici e sociali che spiegano tanto
lo sviluppo tanto la decadenza di Roma . Se nelle Considerazioni la spiegazione
dei fatti socio-politici mediante princìpi generali era applicata al caso
specifico della storia romana , nel maturo Spirito delle leggi essa viene
generalizzata , dando luogo alla costruzione di una vera e propria scienza delle
società : Infatti , Montesquieu - che è stato da taluni considerato l'
iniziatore della moderna sociologia - intende ritrovare le sue cause generali
che presiedono allo sviluppo delle diverse istituzioni socio politiche , pur non
dimenticando il carattere specifico delle singole nazioni e dei singoli momenti
storici . Per realizzare questo disegno egli individua tre forme di governo ,
distinte sia in base al numero di coloro che detengono il potere sia in base al
modo in cui esso viene esercitato . A ciascuna di queste forme di governo
corrisponde un principio, inteso nel duplice senso di fattore originario e di
elemento costitutivo , al quale esse devono mantenersi fedeli se vogliono
conservarsi a lungo. Nel governo repubblicano - distinto a sua volta in
democratico e aristocratico- il potere è ritenuto da più persone
(rispettivamente tutti o alcuni cittadini) ed è esercitato in conformità alla
legge : il suo principio è la virtù . Nel governo monarchico il potere è
detenuto da uno solo , ancora in conformità alla legge : il suo principio è l'
onore. Nel governo dispotico il potere è tenuto da uno solo , ma è esercitato in
modo arbitrario : il suo principio è la paura . Montesquieu , pur non
nascondendo le sue simpatie per la soluzione monarchica di tipo costituzionale
(sul modello inglese) , ritiene che non si possa stabilire in assoluto quale di
queste tre forme di governo sia la migliore . La validità di ciascuna di esse è
relativa al popolo cui si applica . L' intento di Montesquieu non è quindi
quello di indicare un ordine preferenziale , ma piuttosto di ricercare la serie
delle condizioni - sociali , geografiche , giuridiche ecc. - necessarie perchè
ciascuna forma di governo , con il suo principio , possa svilupparsi e
mantenersi . L' insieme di questi rapporti (il clima , il territorio , le
istituzioni ecc.) è ciò che egli chiama spirito delle leggi . Montesquieu
si preoccupa anche di determinare la condizione generale per il mantenimento
della libertàpolitica , la quale condizione può valere indifferentemente per le
forme di governo repubblicana - cioè democratica o aristocratica - e monarchica
(al dispotismo non si può applicare , poichè il suo principio , la paura ,
esclude la libertà) . Essa consiste nella divisione dei poteri - legislativo ,
esecutivo , e giudiziario - che Montesquieu aveva visto realizzata nella
costituzione inglese . La teoria della divisione dei poteri era stata concepita
già da Locke limitatamente ai primi due poteri (per Locke il terzo potere non
era quello giudiziario , ma quello fededrativo , e dipende dal potere esecutivo)
e perfezionata successivamente da Henry Saint-John Bolingbroke (1678-1751) , con
il quale Montesquieu venne in contatto nel suo viaggio in Inghilterra .
Attraverso Montesquieu essa entra definitivamente nel patrimonio politico e
culturale francese ed europeo .
martedì 11 dicembre 2012
giovedì 1 novembre 2012
TORRE DI BABELE
Per secoli si è creduto che la vicenda della Torre
non fosse altro che una storia per dimostrare l’arroganza degli uomini, un
esempio da non seguire, fino a quando Koldeway nel 1899, iniziò gli scavi nella zona del Kasr. La
torre di Babele quindi, non era altro che lo ziggurat di Babilonia. Secondo la
Bibbia, Babilonia fu fondata da un certo Nimrod. Dopo poco tempo, egli divenne
arrogante e si mise ad adorare idoli di legno e di pietra, e si convinse di
sfidare per vendicare i suoi avi uccisi dal diluvio. Decise che avrebbe
costruito una torre altissima, che sarebbe stata usata dal suo esercito per
combattere contro Dio. Sul lato orientale e sul lato occidentale della torre,
c’erano sette scale che agevolavano il lavoro.
Prima ancora che la torre fosse finita, Nimrod ordinò al suo esercito di
scagliare delle frecce contro il cielo. Dio allora disse ai settanta angeli:
"Scendiamo tra loro e confondiamo il loro linguaggio, in modo che invece
di una sola lingua ne parlino settanta". Fatto ciò, gli operai smisero di
capirsi e la costruzione della torre rallentò fino a fermarsi ed in seguito
venne distrutta da un terremoto e da un incendio. Le stirpi degli uomini che
avevano partecipato alla costruzione della torre vennero disperse sulla
Terra. Alcuni studiosi hanno contestato l’ipotesi che la città di Nimrod
fosse Babilonia a causa del seguente errore linguistico: il termine babilonese
ba-bili, significava “porta di Dio”, mentre il termine ebraico balal voleva
dire confusione. Quando Koldewey scavò alla ricerca della torre, trovo
solamente le sue fondamenta. Era possibile quindi che una volta crollata
(come quella della Bibbia) fosse stata ricostruita, e questo è confermato anche
da numerose iscrizioni. La torre si elevava in enormi gradini ed Erodoto ci
dice che: “Nel centro del sacro edificio è costruita una torre massiccia, sopra
questa torre ve ne è un’altra sovrapposta, e un’altra ancora sopra la seconda,
e così fino a otto torri (gradini)”. Le terrazze a gradini erano ricoperte di
piastrelle a colori brillanti ed ognuna di un colore diverso. Lo ziggurat era
chiamato Etementaki, “la pietra angolare del cielo e della terra” e sorgeva
all’interno di un recinto chiamato “Sachn”. I suoi lati erano orientati secondo
i punti cardinali. Le fondamenta della costruzione erano larghe e alte e lo
dimostra il tempio di Marduk, la divinità protettrice di Babilonia. Tutte le
città babilonesi avevano il proprio ziggurat, che ogni qual volta cadeva,
veniva ricostruito. Lo ziggurat serviva
a tutta la comunità che venerava il dio Marduk e sulla cima della torre di
Babilonia, c’era infatti un tempio dedicato a Marduk, al cui interno non si
trovavano né statue né ori ma solo un divano; questo edificio sacro era
inaccessibile al popolo: c’era solamente una donna prescelta che notte dopo notte aspettava di soddisfare i
piaceri del dio. Dopo la morte di
Nebukadnezar, Ciro il persiano nel 539 a.C. si impadronì della città, ma per
non distrusse né la torre, né gli altri edifici sacri. Dopo di lui, Serse non
lasciò che macerie, le stesse che
Koldewey e la sua squadra
dovettero sgomberare per riportare alla luce l’antica città: E sembrano adatte
le parole del profeta Geremia: "E ci abiteranno gli animali del deserto e
i cani selvatici, e non sarà mai più abitata, e nessuno vi abiterà per tutti i
tempi che verranno". Ancora oggi
molte zone del tempio Esagila e della città stessa che ospitava Etemenanki
rimangono ancora nell'oscurità.
domenica 7 ottobre 2012
AGNOSTICISMO
L' agnosticismo (dal greco a-gnothein
let. non sapere) è una posizione concettuale in cui si sospende il giudizio
rispetto a un problema poiché non se ne ha (o non se ne può avere) sufficiente
conoscenza. L'agnostico afferma cioè di non sapere la risposta, oppure afferma
che non è umanamente conoscibile una risposta, e che per questo non può
esprimersi in modo certo sul problema esposto. Questa posizione è solitamente
assunta rispetto al problema della conoscenza di Dio,
ma può anche riguardare l'etica, la politica o la società.
Si suole distinguere, riguardo alle persone non credenti in una religione,
tra ateismo
e agnosticisimo. La differenza sta nel fatto che, mentre l'agnostico afferma
semplicemente l'impossibilità di conoscere la verità sull'esistenza di Dio o di
altre forze soprannaturali, l'ateo, al contrario, afferma
con certezza che non esiste alcun Dio o un qualsiasi altro tipo di forza
superiore. In pratica la posizione "agnostica" deriva dallo scetticismo,
che praticava una simile ma più radicale sospensione del giudizio nell'epistemologia,
ritenendo tutta la conoscenza umana sempre dubitabile e perfettibile. Gli
agnostici non sono necessariamente indifferenti al problema della fede e all'attività
spirituale o religiosa. Molti di coloro che stanno attivamente cercando una
fede o sono in dubbio, hanno sostanzialmente una posizione agnostica,
paragonabile al dubbio metodologico nella filosofia. Il termine fu usato la prima volta nel 1869 dal naturalista
britannico Thomas Henry Huxley, per descrivere la sua
posizione rispetto alla credenza in Dio; il termine deriva come contrapposizione alle antiche
dottrine cristiane gnostiche, che affermano che la
conoscenza della realtà ultima (gnosi) è interiore a ogni uomo. La posizione agnostica diviene
permanente in vari filosofi post-kantiani, che come dimostrò Immanuel Kant
ritengono che la ragione
che pretende di parlare dell'incondizionato cade in contraddizione, tanto per
dimostrarne l'esistenza quanto per negarla.
domenica 9 settembre 2012
NIRVANA BUDDISTA
Il Buddhismo sostiene una reincarnazione nelle
diverse specie di esistenza. La comparsa nel mondo può essere interrotta, se il
Karma è particolarmente cattivo, da pene infernali di lunga durata, mentre
d’altra parte le buone azioni sono premiate con la dimora in un mondo divino.
Questi cieli hanno una disposizione a piani sovrapposti, e quanto più in alto
sono collocati, tanto maggiori sono le perfezioni di coloro che vi dimorano.
Tuttavia il piacevole soggiorno nei mondi divini non è per il saggio un fine
degno d’essere ottenuto a tutti i costi, poiché anche l’esistenza celeste è
destinata ad aver fine, con il ritorno ai dolori della terra. La liberazione
finale dalle sofferenze e dalle passioni è garantita solo dal raggiungimento
del Nirvana. Il Nirvana (dispersione, estinzione), secondo la dottrina del
Hinayana è la liberazione, già realizzabile in questa vita, dai tre peccati
capitali: odio, cupidigia ed illusione. Con la morte, il santo raggiunge una
condizione in cui tutti i gruppi di fattori esistenziali che formavano la sua
Personalità, vengono annientati senza possibilità che ne sorgano di nuovi. Il nirvana perciò, dal punto di vista dell'uomo posto nel mondo è il
nulla, per cui spesso viene paragonato allo spazio vuoto. In realtà è un nulla
relativo, non assoluto, poiché da quelli che lo hanno ottenuto viene sentito
come una gioia ineffabile, soprannaturale. Il Maháyána, almeno in alcuni testi
e scuole, designa questo nirvana, che è simile "a una lampada che si
spegne", come un nirvana inferiore. Il supremo nirvana, quello vero, cui
tende il bodhisattva, non è una condizione statica, bensí dinamica, di
superiorità sul mondo: in esso il santo, libero dall'ignoranza, dalla passione,
dal dolore e dal karma, opera eternamente e in modo costante per il bene di
ogni essere vivente. Il buddhismo insegna che è possibile una liberazione di
singoli individui, ma non una liberazione universale, poiché il numero degli
esseri sulla terra è infinitamente grande. Il singolo però può raggiungere la
salvezza solo nel corso di innumerevoli esistenze, liberandosi a poco a poco da
tutti gli impulsi e dall'illusione della presenza di un'individualità
perdurante e di un mondo formato di sostanze eterne. Il santo maháyána Aryadeva
compendia la via della salvezza nelle seguenti parole: "In primo luogo a
tutto ciò che è male rinuncia, e poi a credere nell'Io, renditi infine libero
da tutto, e allora certo diverrai un saggio".
martedì 28 agosto 2012
LUDWIG WITTGENSTEIN
Nato
a Vienna da una famiglia alto borghese di religione ebraica, Ludwig
Wittgenstein (1889-1951) si trovò immerso sin dall'infanzia in un clima
intellettuale molto vivace ed inquieto. Nel primo quindicennio del Novecento
Vienna era uno degli epicentri della cultura europea d'avanguardia: Freud vi
aveva aperto il proprio gabinetto medico, e di lì andava organizzando il
movimento psicoanalitico. In ambito filosofico-scientifico, Mach vi aveva
appena pubblicato Conoscenza ed errore (1905) e stava ulteriormente
approfondendo la critica al positivismo e le sue originali tesi
empiriocriticiste, che tanta influenza avranno di lì a poco sui fondatori della
scuola neopositivistica (anch'essa di origine viennese). E uno dei tratti
caratterizzanti della cultura viennese di questo periodo è il profondo
interessamento per la problematica del linguaggio, centrale nell'arte non meno
che nella filosofia e nella scienza: un interesse testimoniato dalla
riflessione di tanti viennesi sulla crisi di certe forme espressive, dalla
correlativa ricerca di nuove forme (la dodecafonia in ambito musicale) e, in
sede più speculativa, da un rinnovato studio del linguaggio sia in sé e per sé,
sia nel suo rapporto col sapere e col mondo. E il principale tema di indagine
di Wittgenstein fu appunto il linguaggio. A partire dal 1908 egli trascorse
lunghi periodi di studio in Gran Bretagna, dapprima come studente di ingegneria
all'università di Manchester e poi, dietro consiglio di Frege, come studente di
logica e filosofia a Cambridge, sotto la guida di Russell (che all'epoca stava
ultimando i Principia mathematica ), al quale si legò profondamente. E non a
caso proprio in questo ambiente Wittgenstein elabora il primo nucleo di quello
che sarà il suo capolavoro: il Tractatus logico-philosophicus , l'unica opera
che egli volle dare alle stampe (fu pubblicato prima in una rivista austriaca
nel 1921 e poi, nel 1922, a Londra, con una lunga introduzione di Russell).
Nonostante lo stile arduo e inconsueto, il Tractatus fu accolto con vivissimo
interesse sia in Inghilterra (il titolo dell'opera era stato suggerito da
Moore), sia in Austria, dove presto diverrà un testo di riferimento
fondamentale per i membri del Circolo di Vienna. Ma Wittgenstei non partecipò
quasi mai ai dibattiti divampati dalla sua opera, né tanto meno entrò nel
gruppo dei "circolisti" viennesi (dai quali si sentiva assai
distante). Per vari anni sembrò anzi volersi allontanare dalla filosofia
stessa, insegnando come modesto maestro elementare in alcuni paesi austriaci. Solo
alla fine degli anni '20 si arrese alle insistenze pressanti degli amici
uscendo dal suo volontario isolamento. Nel 1929 tornò a Cambridge, dove stette
per il resto della sua vita, circondato da una nutrita schiera di fedeli
discepoli. Pur non pubblicando nulla, Wittgenstein riprese intensamente la
propria riflessione e ricerca filosofica. Il punto di partenza fu nuovamente la
problematica del linguaggio e del suo rapporto col mondo: ma fin dall'inizio
egli non tacque la sua insoddisfazione nei confronti di molte delle tesi
esposte nel Tractatus . I numerosi appunti che lasciò manoscritti (
Osservazioni filosofiche , 1929-30; Grammatica filosofica , 1932-34; Libro blu
, 1933-34; Libro marrone , 1934-35), e che vennero pubblicati postumi,
attestano il rilievo della sua evoluzione teorica in questo periodo. Altro e
più consistente materiale inedito, in parte risalente ad un'epoca posteriore,
prova che Wittgenstein andava realmente disegnando le linee di una nuova
filosofia (e così si è potuto parlare di un "secondo Wittgenstein"):
una filosofia che, esposta nei celebri seminari wittgensteiniani in un modo che
è stato definito "socratico", ebbe una grande risonanza non solo
entro la cerchia dei diretti discepoli ma anche in un'area non piccola del
pensiero inglese del tempo. Una parte del materiale appena citato venne dato
alle stampe nel 1953 sotto il titolo di Ricerche filosofiche . Nonostante lo
stato relativamente incompiuto, questa nuova opera fu salutata come il secondo
grande libro di Wittgenstein; essa ha esercitato una grande influenza sul
pensiero novecentesco: un'influenza forse anche maggiore di quella del
Tractatus . Altri testi rilevanti ricavati dagli scritti inediti del filosofo
sono le Osservazioni sui fondamenti della matematica (1937-44), le Osservazioni
sui fondamenti della psicologia (seconda metà degli anni '40), Zettel
(1945-48), Della certezza (1950-51) e le Osservazioni sul 'Ramo d'oro' di
Frazer (composte nel 1931, ma con alcune aggiunte molto posteriori). Ulteriori
pagine diaristiche e autobiografiche e altre di interesse etico, religioso ed
estetico sono state pubblicate in tempi e luoghi diversi (molto importanti sono
anche le epistole).
domenica 12 agosto 2012
INTRODUZIONE ALL' ESTETICA
L’estetica
come disciplina filosofica specifica nasce alla fine del Settecento e si
configura pertanto come un fenomeno essenzialmente moderno; essa nasce come
tentativo di fornire una legittimazione universale ad un ambito che, malgrado
la molteplicità di tesi e precetti, non era ancora divenuto oggetto di
riflessione sistematica. Questo ambito è caratterizzato dall’emergere in primo
piano della soggettività con le sue manifestazioni, in particolare il sentimento individuale: questo
particolare stato affettivo, che inizia ad essere concepito sul piano
filosofico come la fonte delle emozioni, era sconosciuto nell’antichità, dove
invece prevaleva la nozione di passione, ancora ampiamente utilizzata fino a
tutto il Seicento. A partire dal Settecento, il sentimento va invece ad
indicare il riflesso soggettivo che accompagna ogni nostra esperienza e si
configura come terzo ambito fondamentale della nostra vita spirituale, accanto
ad intelletto e volontà; tale nozione non appare caratterizzata da connotazioni
di ordine psicologico e trova il suo terreno di applicazione unicamente in
ambito estetico e morale. L’estetica come disciplina filosofica nasce quindi
come tentativo di fondare in modo critico un settore che appare, per le
tematiche affrontate, votato fin dall’inizio all’accidente e all’irrazionalità
e mira a dettare le condizioni di universalità e di necessità per un tipo di
esperienza che, ad una prima analisi, ne è priva. L’estetica, come fenomeno
moderno, si sviluppa in un’area culturale, quella di lingua tedesca, che alla
fine del Settecento offre alla cultura contributi decisivi nel campo della
letteratura (Goethe, Novalis, Schiller, Hölderlin, ecc..) e della musica
(Mozart, Beethoven, Schubert) e si radica in un tessuto sociale in cui si
qualifica in modo molto chiaro e preciso l’esperienza sociale dell’arte. Il
momento in cui infatti nasce l’estetica filosofica è anche quello in cui si
delinea in modo definitivo e stabile la figura
dell’artista come soggetto in grado di produrre le opere d’arte, quel
particolare tipo di oggetti cioè che vengono concepiti sotto la comune
categoria della qualità estetica. Tale processo ha inizio a partire dal
Rinascimento, mentre precedentemente, nel mondo greco, romano e medievale,
l’attività artistica è sempre rimasta, sul piano teorico e sul piano pratico,
al di sotto di quel livello di unificazione e specificazione oltre il quale
poteva divenire oggetto di una specifica teoria estetica. Ciò tuttavia non
significa che le epoche e le civiltà precedenti il Rinascimento non siano state
in grado di produrre opere d’arte valide come quelle realizzate negli ultimi
quattro secoli; tuttavia la categoria di arte come noi la conosciamo e la
pratichiamo oggi era sconosciuta ai greci, ai romani e alla civiltà medievale.
Ciò peraltro non rappresenta necessariamente un limite negativo di queste
culture: l’estetica più recente si è chiesta infatti se l’arte come attività
distinta dalle altre attività dell’uomo non sia il frutto di una specifica
forma di “alienazione”, una conseguenza cioè di quel processo di divisione del
lavoro che viene visto come motivo di lacerazione dell’integrità
dell’esperienza, sia sul piano individuale che su quello sociale.
domenica 5 agosto 2012
ESOTERISMO
Dottrina
o complesso di dottrine di carattere segreto. All'origine della parola
esoterismo sta l'aggettivo greco esoterikos (interno), usato per
indicare insegnamenti riservati a una cerchia ristretta di discepoli, in
contrapposizione a exoterikos -essoterico- (esterno), che si riferiva a
insegnamenti indirizzati a tutti. Le dottrine esoteriche si configurano entro
fenomeni culturali come la magia, l'alchimia, le religioni misteriche e
gnostiche, la qabbalah. In
queste forme di cultura la presenza del segreto può essere intesa in due modi:
come presenza di un segreto che è nei meccanismi dell'universo e che resta
inaccessibile per gli stessi iniziati (i quali sono iniziati alla venerazione
del segreto in quanto tale, non alla sua penetrazione); oppure come presenza di
un segreto che si attua nel patto reciproco di silenzio degli iniziati verso i
profani. Questi due modi diversi corrispondono storicamente al prevalere di
istanze di mistica (segreto tale anche per gli iniziati) o di istanze di magia
(segreto che gli iniziati conoscono, o quanto meno sfruttano, ma che essi
tacciono ai profani). Si trova usata come sinonimo di esoterismo la parola
occultismo. É più esatto però riconoscere nell'occultismo solo una forma
particolare di esoterismo, in quanto esso, da un lato, configura il segreto
come conoscibile con tecniche appropriate, e dall'altro non implica sempre il
vincolo del segreto verso i profani.
Elementi caratterizzati dall'esoterismo sono presenti ai più vari
livelli di civiltà. Nelle culture cosiddette primitive rientrano in questo
settore i rituali di iniziazione, in genere segreti, e che nella maggior parte
dei casi stabiliscono una distinzione di status tra gli iniziati da un
lato, e i non iniziati dall'altro; per es.. solo gli uomini, la cui maturità è
sanzionata dalla cerimonia stessa, possono partecipare a determinati riti e
conoscere pienamente la tradizione e tutto il patrimonio sacro della tribù. Nella
maggior parte delle religioni che pure non sono in sé e per sé esoteriche si
trova integrata una qualche forma più o meno marginale o ereticale di
esoterismo. É il caso delle correnti esoteriche sviluppatesi in Estremo Oriente
a fianco del brahmanesimo e del buddhismo
(tantrismo, buddhismo zen ecc) o nel Vicino Oriente a fianco dell'islamismo (sufismo). Vi sono numerose accezioni esoteriche
del cristianesimo: da quelle di presunta impronta gnostica del periodo delle
origini, a quelle medievali forse influenzate dal manicheismo, a quelle della cosiddetta qabbalah
cristiana del rinascimento (collegata alla tradizione ebraica), a quelle dei
periodi di "risveglio" religioso nei secoli XVII-XVIII, al
cattolicesimo esoterico francese e bavarese del sec. XIX ecc. Altre forme
di esoterismo sono relativamente autonome dalle religioni costituite e quasi
rappresentano religioni a sé stanti: l'esoterismo neopagano del rinascimento,
collegato al recupero del neoplatonismo; nei secoli XVIII-XIX il martinezismo e
il martinismo; entro certi limiti, la stessa massoneria e, nel sec. XX, la teosofia e l'antroposofia (Rudolph
Steiner). É frequente, specialmente in queste forme di esoterismo che quasi
costituiscono religioni autonome, una particolare attenzione per i sistemi
simbolici delle culture dell'antichità, nei quali si presume di riconoscere il
patrimonio cifrato di una sapienza perduta. Per questa ragione gli esoteristi
dei secoli XVIII e XIX hanno dato contributi a volte molto perituri, a volte di
lunga influenza e (nonostante le bizzarrie) di indubbia acutezza, alla scienza
della mitologia. Studiosi, e spesso anche cultori in prima persona,
dell'esoterismo hanno inoltre analizzato nei secoli XIX e XX documenti
letterari e artistici, riconoscendovi, in modo a volte attendibile, linguaggi
esoterici; hanno parlato di esoterismo nel linguaggio degli stilnovisti e di
Dante; individuato simboli alchemici nell'architettura e nelle sculture delle
cattedrali medievali; indagato i valori esoterici di testi di Avicenna;
dei testi medievali relativi alla leggenda del Graal. Vi furono, del resto.
scrittori dei secoli XIX-XX che ebbero speciale gusto per l'esoterismo o che
addirittura si ritennero innanzitutto esoteristi.
domenica 29 luglio 2012
CARL GUSTAV JUNG
Carl
Gustav Jung nasce a Kesswil, sul lago di Costanza (Svizzera) il 26 luglio 1875.
Figlio di un pastore protestante, consegue la laurea in Medicina e nel 1900
entra a lavorare nell' ospedale psichiatrico di Zurigo. Attraverso gli studi di
medicina si avvicina alla psichiatria. Per alcuni anni è uno degli allievi
prediletti di Sigmund Freud, che lo fa avvicinare alla
psicoanalisi. Jung diviene forte sostenitore delle teorie del maestro, tuttavia
appaiono presto delle divergenze tra i due, profondamente diversi nel
carattere. Nel 1912 - con la pubblicazione del suo volume "Trasformazioni
e simboli della libido" - il rapporto tra Jung e Freud si interrompe. Lo
svizzero inizia a elaborare una nuova teoria, detta poi psicologia analitica,
che rispetto alle teorie freudiane, si caratterizza per una maggiore apertura
verso gli elementi non razionali della psiche. Jung è persona di grande cultura:
studia a fondo i temi mitologici, letterari e religiosi di tutti i tempi e di
tutti i paesi. Viaggia molto: a partire dal 1920 visita Africa, India e Nord
America. Nel 1921 pubblica il saggio "Tipi psicologici". Durante il
suo peregrinare entra in contatto con numerose popolazioni di cui studia miti,
rituali, usi e costumi. Oltre all'inconscio personale del singolo individuo,
Jung è convinto esista anche un inconscio collettivo comune agli uomini di
tutti i tempi. I contenuti di questo inconscio collettivo, nel corso dei secoli
si sarebbero espressi in immagini, miti e credenze religiose che egli ritrova,
in modo identico, nelle culture di popoli di epoche e luoghi diversi. Nelle sue
teorie gli archetipi - che chiama "immagini originarie" - rivestono un
ruolo fondamentale. Gli archetipi sono contenuti inconsci che fungono da
produttori e ordinatori di rappresentazioni: una sorta di modello presente in
modo innato nella psiche dell'essere umano. Nel 1930 viene nominato presidente
onorario della "Società tedesca di psicoterapia"; dopo l' avvento del
nazismo (1933) non dà le dimissioni, collabora invece con Hermann Göring, fino al 1940, alla
riorganizzazione della Società. Ai viaggi e all'elaborazione della psicologia
analitica, Jung affianca una intensa attività terapeutica, che svolge nei
pressi di Zurigo. Qui fonda un istituto che porta il suo nome (Carl Gustav Jung
Institut): fa costruire una torre, luogo simbolo di rifugio e di meditazione.
Insegna teoria e metodi di quella che, per distinguerla dalla psicoanalisi
freudiana, è ormai definita "psicologia analitica". Nel 1944 pubblica
"Psicologia e alchimia", ma nello stesso anno subisce un incidente,
una frattura e un successivo infarto. In coma, vive un'esperienza di pre-morte
che descriverà poi nel testo autobiografico "Ricordi, sogni e
riflessioni". Nel 1952 pubblica importanti scritti sulla "teoria
della Sincronicità". A partire dagli anni '40 si occupa anche di un nuovo
fenomeno, che andava intensificandosi sempre di più, soprattutto dopo la fine
della seconda guerra mondiale: l'ufologia. Dopo una breve malattia, muore
il 6 giugno 1961, nella sua casa sul lago a Bollingen.
domenica 22 luglio 2012
KARMA
Karma è un termine sanscrito
(traducibile grossolanamente come agire,
azione) che indica presso le filosofie orientali il principio di azione/reazione che regola la vita di tutto ciò che è
manifesto nell'universo, vincolando le anime al Saṃsāra (il ciclo di morti e rinascite). Il
concetto di Karma è centrale nell'Induismo,
nel Buddhismo,
nel Sikhismo
e nel Jainismo.
In Occidente
si diffuse nel corso del XIX secolo, divulgato dalla Società
Teosofica, ed è al centro di molte discipline New Age.
Nel Neopaganesimo,
e nella Wicca
in particolare, il Karma è legato alla genesi della Rede (Finché non fai del male a nessuno, fa' ciò
che vuoi) e della Legge del tre. La cosiddetta "Regola
d'oro" nel cristianesimo. Induismo. Il Karma riguarda sia l'attività o agire in sé sia
l'insieme delle conseguenze delle azioni compiute da un individuo nelle vite
precedenti. Secondo il principio del Karma le azioni del corpo, della parola e
dello spirito (i pensieri) sono insieme causa e conseguenza di altre azioni:
niente è dovuto al caso, ma ogni avvenimento, ogni gesto è legato insieme da
una rete di interazioni di causa/effetto. Il principio del Karma è valido
esclusivamente all'interno del mondo materiale (prakriti) e del ciclo di nascita e morte (Saṃsāra). Se si produce sofferenza o si
interferisce negativamente con il Dharma o legge universale, si produce Karma negativo; se si fa
del bene, si produce karma positivo. Nelle vite successive (o nella vita
corrente) si dovrà pagare o si verrà ripagati per le azioni compiute
precedentemente. Il Karma Yoga è uno dei modi di ottenere Moksha ovvero
la liberazione. Buddismo.
Il Karma (sanscrito: pāli
kamma, cinese: pinyin: yè, giapponese:
gō, tibetano:
las) è un "principio
universale" secondo il quale un' "azione virtuosa" (che non
produce sofferenza) genera benefici nelle vite successive, mentre un'azione
"non virtuosa" (che produce sofferenza) genera fastidi e disagi nelle
vite successive. Il Karma,
dunque, vincola tutti gli esseri senzienti al ciclo del Samsāra
poiché tutto ciò che l'essere farà, si ripercuoterà nella vita futura. Quando
viene compiuta un'azione non virtuosa, viene depositato nella vita stessa dei
"semi" o "residui" (sans. vāsanā) ) in seguito alla produzione di karma negativo. Quando viene compiuta un'azione virtuosa invece,
viene prodotto karma positivo.
Questi residui allungheranno la permanenza dell'esistenza nel Samsāra. Esiste
però un tipo di Karma - che,
effettivamente, "non è" Karma
- che non è né positivo né negativo, quello che porta alla
"liberazione" (Vimukti).
Ogni manifestazione degli esseri senzienti possiede una certa quantità di
"semi del Karma", che finché non verranno esauriti, li costringeranno
a permanere nel ciclo del Samsāra. Questi "semi" sono frutto di azioni
compiute da innumerevoli vite precedenti. Essi non possono diminuire ma possono
essere distrutti con il raggiungimento dell'illuminazione (Bodhi). Con l'estinzione
del debito karmico, l'essere non sarà più vincolato al Karma e quindi al Samsāra
e potrà raggiungere il Nirvana. Il significato e il ruolo
attribuito alla dottrina del Karma
varia a seconda degli insegnamenti delle differenti scuole buddhiste. L'atto
nel Buddhismo, e solo in esso, si identifica con l'intenzione (cetana)
allorché un gesto compiuto o un pensiero elaborato (prayatna) senza intenzione non produce Karma, spietato o umano che sia. Al contrario, la sola
intenzione che non si traduca in gesto o pensiero produce karma e poiché
l'intenzione neutra (avyakrta)
non può logicamente esistere essa è la sola a produrre karma secondo
l'insegnamento buddhista. Condizionata dalla sola esistenza (bhava), la nascita (jati) delle intenzioni non è
reversibile e niente di ciò che esiste (tranne
il nirvana) che sia una divinità, una pratica rituale, un rimorso, un
rimpianto o la morte potrà impedire che se ne formi il frutto, che maturi e che
si riversi sull'agente nelle condizioni determinate solo e solamente dall'atto
medesimo. Per cui l'implacabile responsabilità personale va ricondotta sempre
alle vite precedenti per una piena comprensione ed eventualmente distruzione
degli atti medesimi, siano essi positivi (kusala) o negativi (akusala).
domenica 15 luglio 2012
KIERKEGAARD
Kierkegaard Sören
Aabye, filosofo danese (Copenaghen 1813 – 1855). Profondamente
segnato dall'educazione di un padre austero e devoto e dalla rottura del
fidanzamento con Regina Olsen, medita sull'esistenza per arrivare a cambiare la
propria. Kierkegaard intende la ricerca filosofica non solo come un'attività
del pensiero, ma come una manifestazione di vita, per cui la sua esistenza
tormentata e le sue polemiche con la Chiesa protestante si riflettono nella sua
opera, che fu molto copiosa e pubblicata sotto pseudonimi diversi. Egli
scrisse: Il concetto dell'ironia (1841), Il diario di un seduttore , compreso
originariamente in Aut-Aut (1843), Timore e tremore (1843), La ripetizione
(1843), Gli stadi sul cammino della vita (1845), di cui in italiano è tradotta
solo una parte dal titolo In vino veritas , un diario dal titolo Colpevole -non
colpevole , una lettera al lettore sotto lo pseudonimo di Fratel Taciturnus,
nella quale viene enunciata la teoria dei tre stadi dell'esistenza (estetico,
etico, religioso); Briciole di filosofia (1844), Il concetto dell'angoscia
(1846), Postilla conclusiva non scientifica (1846), La malattia mortale (1849).
Il titolo di una delle opere fondamentali, Aut-Aut , richiama alla posizione di
Kierkegaard nei confronti della filosofia hegeliana, nell'ambito della quale
bisogna respingere il concetto di conciliazione degli opposti, I 'et-et , in
quanto ci sono alternative che non sono conciliabili, ma si escludono l'una con
l'altra: le alternative possibili della vita non si lasciano conciliare nella
continuità di un unico processo nel quale agisce tutta la realtà. La realtà non
è lo Spirito assoluto nel quale gli opposti si conciliano: è l'uomo, il “me”,
per il quale si presenta continuamente l'esigenza di una scelta tra due
possibilità inconciliabili, per cui il realizzarsi dell'una esclude il
realizzarsi dell'altra e la nullifica. Questo concetto di possibile, che
Kierkegaard riconduce alle dimensioni esistenziali, e toglie al dominio della
logica, è nuovo nella filosofia moderna, ed ha il suo antecedente solo nella
filosofia platonica. La possibilità come categoria dell'esistenza umana è
sempre possibilità che sì o possibilità che no; nella dimensione logica invece
il possibile ha un senso positivo, perché è semplicemente “ il non impossibile
”. Kierkegaard ne mette in luce l'aspetto negativo, paralizzante: è sempre
possibile scegliere fra due possibilità, ma tanto l'una che l'altra, comunque
io scelga, possono e non possono realizzarsi. È un'alternativa fra l'essere e
il nulla, e l'atto della scelta ha sempre valore esistenziale, in quanto solo
dopo la scelta si saprà se la possibilità è reale o no. Prima non c'è alcuna
garanzia, il nulla è la minaccia costante sull'esistenza umana. Il sentimento
che scaturisce dalla consapevolezza del carattere nullificante della scelta è
tipico dell'uomo, e caratterizza i suoi rapporti col mondo esterno: è il sentimento
dell'angoscia. Uno degli elementi originali di Kierkegaard consiste nell'avere
posto in luce l'uomo come singolo essere, solo con se stesso. Malgrado
polemizzi con Hegel, Kierkegaard non si pone al di fuori dell'hegelismo, perché
si avvale di concetti hegeliani, in quanto si esprime in termini di “ assoluto
”, “ totalità ”, “ finito-infinito ”, “ essere-nulla ”, anche se essi vengono
utilizzati in una prospettiva antihegeliana. L'opera principale di Kierkegaard:
“Aut-Aut” ha come oggetto il passaggio dallo stadio estetico della vita allo
stadio etico. Colui che vive in una dimensione estetica si affida
all'immaginazione senza progettare la sua esistenza oltre l'attimo immediato:
esempio di questo stile di vita è Don Giovanni, di cui Kierkegaard parla a proposito
di Mozart, o Giovanni, il protagonista del “Diario di un seduttore”. Il
seduttore sembra realizzare una sorta di destino eroico, anche la sua fine è
negativa, poiché questa fine è l'ultimo atto di un'esistenza vissuta in una
dimensione estetica assoluta, in cui non c'è nulla di banale. L'analisi di
opere di teatro in cui spiccano figure femminili (Margherita nel Faust, Elvira
nel Don Giovanni mette in risalto l'amore come centro dell'esistenza
estetizzante, la quale conduce necessariamente all'infelicità poiché ha in sé i
germi di una crisi che la destina al naufragio. Non occorre porsi su un piano
etico o religioso per condannare questo tipo di esistenza: la condanna è
interna, perché la vita senza storia, senza ripetizione, senza impegno non può condurre
che alla noia e al disprezzo della vita: alla disperazione. L'estetismo è
distruzione della personalità, e non è libertà ma schiavitù perché pone il suo
interesse in ciò che non dipende dall'esteta, cioè nel piacere, che gli viene
comunque da altri. La disperazione è l'ansia di una vita diversa, un'altra
alternativa possibile. Non bisogna sottrarsi alla disperazione, ma accettarla,
viverla fino in fondo, sceglierla. Se l'esteta avrà il coraggio di compiere una
scelta alternativa, perverrà alla vita etica. Anche in essa l'amore è un fatto
centrale, ma è realizzato non nell'attimo, ma nella continuità, nella
ripetizione, all'interno dell'istituzione del matrimonio. Caratteristica della
vita etica è la scelta che l'uomo fa di sé stesso, scelta assoluta, di tutto sé
stesso, in quanto chi accetta l'eticità della vita imprime un indirizzo stabile
e costante alla propria esistenza, e sta a lui, non al caso, fare progetti e
realizzarli. Egli sceglie la propria personalità; sostituendola al capriccio, e
si pone in rapporto con gli altri, si riallaccia all'umanità. Scegliendosi,
l'uomo si dà una storia che non è tutta positiva, ha pure momenti crudeli,
errori, di cui egli si pente senza poterli annullare. In questo concetto del
pentimento comincia a rivelarsi l'altra scelta, quella che è al di là
dell'etica: lo stadio religioso, argomento di “ Timore e tremore ”. Kierkegaard,
analizzando il sacrificio di Abramo, che è conforme al volere di Dio ma
contrario alle leggi dell'etica, prospetta il passaggio dallo stadio etico a
quello della fede, in cui non c'è garanzia umana a convalidare la scelta, e in
cui la condizione umana si configura nella solitudine più deserta della
coscienza, che è in rapporto unicamente con Dio. Nulla garantisce questo
passaggio, che non è un passaggio ma un salto, e non si fonda sulla ragione,
come la scelta dell'etica, ma sulla fede. L'angoscia, la disperazione, il
sentimento dell'assurdo, caratterizzano questo salto nel buio: l'uomo che
sceglie la fede fa una scommessa sull'assurdo ed è assolutamente solo davanti a
Dio.
domenica 8 luglio 2012
ESISTENZIALISMO
La
domanda centrale delle problematiche esistenzialiste è: “che cos’è l’essere?”.
Essa può essere posta in altri modi: cos’è che determina la nostra esistenza?
Perché c’è l’uomo invece del nulla? L’essere è un concetto unico da cui
derivano tutte le sue manifestazioni (l’uomo, le cose, ecc.)? Heidegger, che
per primo si pose compiutamente la domanda, intuì che diversamente da quanto
affermato in tutta la storia della metafisica l’essere non va confuso con l’ente:
in altre parole, l’essere non è Dio o le Idee platoniche, concetti ontologici,
manifestazioni fisiche più che metafisiche. L’essere è un concetto e non può
essere oggettivato. Il filosofo Gabriel Marcel pose l’accento sul fatto che
l’esistenza non è un problema, bensì un mistero. Un problema è infatti un
qualcosa che si pone davanti a noi come un ostacolo e di cui noi possiamo
perlomeno delimitarne la portata e quindi comprenderlo in via di massima.
L’esistenza non si pone di fronte a noi, è anche in noi stessi, ci penetra, e
dunque noi siamo sia soggetti che oggetti della domanda “che cos’è l’essere?”.
Heidegger spiegava questo concetto in questo modo: di ogni cosa noi possiamo
dire cos’è categorizzandola, possiamo farla rientrare in un insieme (il cane è
parte dell’insieme ‘animali’, per intenderci). Ma il concetto di essere non può
venire categorizzato, perché esso stesso è l’insieme più ampio di tutti, di cui
tutti gli altri insiemi fanno parte. Il fatto quindi che l’essere è sia in noi
che fuori di noi non ci permette di dare mai una risposta definitiva al
problema (o, meglio, al mistero). Questa questione è meglio marcata nelle
riflessioni di Sartre, il quale alla domanda dà tre risposte: la prima, la più
evidente, è che l’essere sia costituito dall’insieme di tutti gli esseri - cose
e persone - presenti nel contesto spazio-temporale in cui viviamo; la seconda è
che l’essere sia quello che Sartre chiama il per-sè, cioè la nostra coscienza,
il nostro io che si pone come altro rispetto al resto del mondo, è soggetto e
non oggetto; infine può essere in-sè, ossia l’essere nelle cose e nei fenomeni
che ci appaiono, negli oggetti che ci circondano, a cui però diamo un senso
noi, e quindi in qualche modo derivano da noi. Nessuna di queste tre è una
risposta completa: l’essere, per Sartre, è come se si manifestasse in parte in
ogni cosa ma si cela sempre nella sua compiutezza. Heidegger e Jaspers
indicarono tuttavia una semi-risposta al quesito. Il fatto che noi ci poniamo
la domanda “che cos’è l’essere?”, il fatto che andiamo alla ricerca di una
risposta e indaghiamo la realtà nel cercarla è già di per sè una risposta. Si
può dire, quindi, che si è, si esiste nel momento in cui ci si pone la domanda
“perché esisto?”, “che cosa significa esistere?”. In questo modo, infatti, noi
esistiamo perché il significato etimologico di esistere è ex-sistere, cioè in
latino “essere fuori da”: in qualche modo cerchiamo di uscire fuori da noi
stessi e guardare l’essere come qualcosa di altro, che non ci appartiene, lo
analizziamo “fuori da noi” e questo è già un primo passo.
lunedì 2 luglio 2012
DRUIDI
Le notizie che abbiamo sui
druidi differiscono a seconda degli autori e delle epoche, ma più che
contraddirsi esse si completano. I druidi erano essenzialmente dei sacerdoti
che presiedevano alle cerimonie del culto e soprattutto celebravano i
sacrifici. Scandivano il tempo secondo atavici rituali. Tutta la concezione del
tempo, per i Celti, era regolata sulle fasi della luna, patrona della fecondità
della terra e delle donne, basata su quattro grandi eventi stagionali. Tutte le
conoscenze e i segreti erano appannaggio dei druidi. E' possibile che
all'inizio, essi formassero un'unica classe ma poi la loro organizzazione si
sviluppò, divenne più complessa e perciò si articolò in classi diverse. Una di
queste riuniva in Gallia i Vates, specializzati in sociologia, in storia e in
scienze naturali, per finire, vi furono ai margini della collettività druidica,
i Bardes, sorta di poeti-cantastorie ufficiali della società celtica e nello
stesso tempo, cronisti. Infatti, in un'epoca in cui non esistevano i giornali,
gli avvenimenti erano divulgati da interminabili cantilene che il popolo
ascoltava con passione. Nella gerarchia irlandese, invece, a fianco dei druidi,
compaiono i Filid, che svolgevano in qualche modo le funzioni scientifiche e
poetiche ed erano quanto a dignità uguali ai druidi, nonché disposti secondo
una rigida gerarchia. Non a caso la parola 'druido' significa 'molto saggio'.
Gli antichi avevano sentito parlare di loro fin dal IV sec. a.C. e avevano un
profondo rispetto per le loro conoscenze e la loro effettiva saggezza. Tuttavia,
non si ha alcun testo che riassuma l'insegnamento dei druidi, ma sappiamo che,
senza essere esoterico o segreto, esso era riservato agli allievi delle loro
scuole, specie relative a seminari agresti, lontani dall'agitazione del mondo e
frequentati soprattutto dai figli dell'aristocrazia. Com'è ben noto, la quercia
per i druidi era particolarmente sacra, poiché vi si raccoglieva il vischio. I
boschi, più ancora dei laghi e dei fiumi, erano luoghi di presenza divina. Il
bosco era a tal punto parte integrante della cultura dei Celti che per loro non
era possibile dissociarlo dagli sforzi per abbattere il nemico. Per i Romani
abbattere i santuari forestali dei Celti era importante quanto sconfiggerne le
truppe sul campo di battaglia. La visione della vita che i Celti acquisivano
per mezzo dell'insegnamento druidico, l'assenza di paura per la morte e
dell'aldilà, non si spiegherebbero senza una credenza radicata nell'immortalità
dell'anima e nella possibilità per l'uomo di conoscere le forme di esistenza
più diverse. Infatti il loro amore per la vita in tutte le sue manifestazioni,
la loro apertura verso tutte le esperienze, rivela in loro il senso dell'unità
del cosmo, più di duemila anni prima che la scienza moderna, con tutte le sue tecniche,
avesse solo cominciato a supporla. I druidi rappresentavano il cardine
dell'unità dell'impero spirituale celtico, i promulgatori dell'armonia e della
sapienza, i signori degli elementi (acqua, fuoco, vento, terra). Fu proprio per
questo che i conquistatori romani arrivarono a sopprimerne la casta e proibire
le loro riunioni e il culto, per colpire al cuore la società celtica.
sabato 16 giugno 2012
F. NIETZSCHE: AL DI LA' DEL BENE E DEL MALE
Sono sempre più indotto a credere
che il filosofo, come uomo necessario del domani e del dopodomani, si
sia trovato in ogni tempo in contraddizione con il suo oggi: il suo nemico fu
ogni volta l’ideale dell’oggi. Sinora tutti questi eccezionali fautori
dell’uomo, ai quali si dà il nome di filosofi e che raramente si sentirono
amici della verità, ma piuttosto sgradevoli giullari e pericolosi punti
interrogativi – hanno trovato il loro compito, il loro duro, non voluto,
inevitabile compito, e infine la grandezza del loro compito, nel costituire
essi stessi la cattiva coscienza del loro tempo. Vivisezionando col coltello
proprio il cuore delle virtù del tempo, tradirono quel che era il loro
strano segreto: conoscere una nuova grandezza dell’uomo, una nuova
strada non ancora mai battuta per il suo innalzamento. Essi svelarono ogni
volta quanta ipocrisia e infingardaggine, quanto lasciarsi andare e lasciarsi
cadere, quanta menzogna si nascondesse sotto il tipo maggiormente venerato
della moralità loro contemporanea, quanta virtù fosse sopravvissuta a se
stessa; ogni volta essi dissero: “Dobbiamo arrivare e partire da quel luogo,
che oggi è per voi meno di ogni altro familiare”. Dinanzi a un mondo
delle “idee moderne”, che vorrebbe confinare ognuno in un angolo e in una
“specializzazione”, un filosofo, ove mai oggi un filosofo potesse esistere,
sarebbe costretto a porre la grandezza dell’uomo, l’idea di “grandezza” proprio
nella sua vastità e multiformità, nel suo essere intero in molte cose:
determinerebbe persino il valore e il rango, a seconda di quali e quante cose
uno sia in grado di sopportare e di assumere sopra di sé, a seconda del limite fino
al quale uno può tendere la sua responsabilità. Oggigiorno il gusto e la virtù
dell’epoca affievoliscono e assottigliano il volere, nulla è tanto in armonia
con i tempi quanto l’estenuazione della volontà. Oggi è tutto l’opposto qui in
Europa, dove soltanto l’animale da armento perviene agli onori e onori
distribuisce, dove l’“uguaglianza dei diritti” si potrebbe anche troppo
facilmente trasformare nell’uguaglianza dei torti: intendo dire in una comune
guerriglia contro tutto quanto di raro, d’inconsueto, di privilegiato
appartiene all’uomo superiore, all’anima superiore, alla superiore
responsabilità, alla pienezza creativa della potenza e all’arte del
signoreggiare – oggigiorno si addice alla nozione di “grandezza” l’essere
nobili, il voler essere per se stessi, il poter essere diversi, il restarsene
isolati e la necessità di vivere a modo proprio; il filosofo divinerà qualcosa
del suo proprio ideale, quando stabilirà “Più grande tra tutti sarà colui che
può essere il più solitario, il più nascosto, il più diverso, l’uomo al di là
del bene e del male, il signore delle proprie virtù, ricco quant’altri mai di
volontà; questo appunto deve chiamarsi grandezza:
poter essere tanto multiforme quanto intero, tanto esteso quanto colmo”. E
ancora una volta domandiamo: è oggi possibile
la grandezza?
domenica 10 giugno 2012
SURREALISMO
Il
termine “surrealismo” viene usato per la prima volta nel 1917 da Guillaume Apollinaire
per definire un suo testo teatrale, che sarà rappresentato al Théatre
René-Maubel di Parigi, da titolo ” Le mammelle di Tiresia”, e definito “dramma
surrealista” o “drame surréaliste”, e da qui la parola ebbe successo e vennè
ripresa più volte. In questo termine cominciano a confluire i concetti nati a
metà del XIX sec. di Supernaturalisme, con cui era definito il pensiero dello
scrittore parigino Gérard de Nerval, o il Surnaturalisme di C. Baudelaire. Il 9
novembre 1918 Apollinaire muore a causa dell’epidemia di febbre spagnola, e ciò
che aveva cominciato fu continuato da Louis Aragon, André Breton e Philippe
Soupault i quali, tra il 1919 e il 1924, diedero vita alla rivista
d’avanguardia “Littérature”. A questa rivista collaborarono diversi intellettuali,
poeti e scrittori, tra cui ricordiamo, Man Ray, Francis Picabia, Marcel
Duchamp, Max Ernest, ecc… . I loro incontri avevano luogo presso Paul Eluard a
Saint-Brice, nella foresta di Saint-Leu, oppure a casa di Breton a Parigi, o si
organizzavano gite di alcuni giorni, in cui si cercavano posti speciali, pieni
di magia e mistero. Il 13° numero della rivista era completamente dedicato al
Dadaismo, e i redattori della rivista di questo movimento condividevano la
sfiducia nel razionalismo e la polemica contro le convenzioni formali, temi che
saranno anche condivisi dalle idee Surrealiste. La differenza fra le due
correnti stà nel fatto che i dadaisti si limitano ad un atteggiamento
distruttore e nichilista, mentre i surrealisti adottano un ateggiamento
costruttivo e propositivo e cercano, sin dall’inizio, di elaborare una nuova
estetica ed una nuova visione del mondo. Nel 1922, Breton assume, da solo, la
direzione della rivista e si distacca dai dadaisti e da Tristan Tzara, ed in
questo stesso anno, assieme a Soupault, compone “Campi magnetici “, che fu
scritto “sottto la dettatura dell’inconscio”. Questo metodo impersonale fu
riutilizzato, con creazioni collettive, nei mesi a seguire, e si ricordano
principalmente Robert Desnos, René Crevel e Benjamin Péret; dove uno di loro,
in stato di “trance”, pronunciò oscure parole, simile agli Oracoli dell’antica
Grecia, mentre gli altri partecipanti gli ponevano domande, così ne uscì fuori
un dialogo che venne riportato sulla rivista come forma poetica ispirata. Le
ricerche di questi artisti si accompagnano a quelle compiute da Sigmund Freud,
il quale nel 1900 pubblica il saggio: “l’interpretazione dei sogni”, ma c’è una
differenza sostanziale tra i surrealisti ed il medico austriaco, quest’ultimo
era interessato al sogno perchè il suo scopo era quello di capire e curare la
nevrosi dei pazienti, mentre per gli altri era una fonte d’ispirazione
artistica ed il loro scopo è quello di suscitare, in chi guarda. sentimenti
contrastanti di stupore, meraviglia e disagio, avvolte anche disprezzo, visto
lo spirito anticonformista, provocatorio, irriguardoso e rivoluzionario di
questi artisti. Autunno del 1924, Breton pubblica il Manifesto del Surrealismo,
inizialmente nato come prefazione per una raccolta di poesie intitolato:
Poisson soluble. Breton del surrealismo dice: “Automatismo psichico puro per
mezzo del quale ci si propone di esprimere, sia verbalmente, sia per iscritto,
sia in altre maniere, il funzionamento reale del pensiero. Dettato del
pensiero, in assenza di tutti i controlli esercitati dalla ragione, al di là di
ogni preoccupazione estetica o morale”. Al gruppo aderiscono scrittori,
intellettuali e artisti, tra cui Max Ernst, Ives Tanguy, André Masson e Joan
Mirò. Nel 1924 il francese Ivan Goll fonda una rivista chiamata “Surréalisme”,
pubblicata in un solo numero e causa di lite tra Goll e Breton ,discussioni che
segneranno la storia del movimento. I motivi della lite erano principalmente
due: 1. Breton considera il termine Surrealismo una sua proprietà perchè lui il
creatore del nome e Goll gli contesta questo monopolio; 2. Goll ritiene che
anche la ragione sia importante nella creazione artistica, perchè fonde e
coordina le attività consce e inconsce. Il 13 novembre 1925, data
d’inaugurazione della prima mostra surrealista nella gallerria Pierre di Parigi
e curata da Pierre Loeb, nello stesso anno prende vita un Ufficio di ricerche
surrealiste, collocato al numero 15 di rue Grenelle a Parigi, che si occupava
delle pubblicazioni della rivista “La Révolution surréaliste”, diretta da
Benjamin Péret e da Pierre Naville e nata come risposta al periodico di Goll e
organo ufficiale del movimento fino al 1929. Il 26 marzo 1926, viene aperta la
Galerie Surréaliste in via Jacques Callot, con una mostra composta da sessanta
opere d’arte primitiva, provenienti dall’Oceania, e da ventiquattro opere di
Man Ray; due anni dopo Breton pubblica il saggio-manifesto “Il surrealismo e la
pittura”, il quale conteneva indicazioni tecniche e pratiche sui metodi
migliori da usare per tradurre in immagini i concetti surrealisti. L’idea base
del Surrealismo, comune ai letterati e ai pittori, è il procedimento inconscio
della “scrittura automatica”, questo metodo consiste nello scrivere, in modo
veloce e quasi in uno stato di trance, ciò che normalmente la nostra ragione o
i nostri freni inibitori ci vieterebbero di scrivere, inoltre questo tipo di
scrittura attua una ricerca di coordinazioni illogiche. I surrealisti adottano,
così, un proecedimento di creazione poetica collettiva che chiamano Cadavre
exquis, e consisetva nel comporre una frase, per i letterati, o un disegno, per
gli artisti, assieme ad altre persone, senza che nessuna di queste conoscesse
ciò che le altre persone avevano fatto. Il nome di questo procedimento,
inventato su suggerimento di André Breton, si riferisce alla prima frase che ne
uscì fuori nel 1925: ” Il cadavere squisito berrà il vino novello”, ( Le
cadavre exquis boira le vin nouveau). I pittori ed i letterati usano lo stesso
metodo, ma uno con la pittura e l’altro con la scrittura: la prima persona
disegna la parte superiore di un foglio, lo piega e lascia una piccola striscia
disegnata , in questo modo la persona che c’è dopo sà da dove riprendere il
disegno, e così via. Un esempio è il Cadavere squisito eseguito nel 1935 da
Oscar Domìnguez, Remedios Varo ed Esteban Francés. Infine il primo propietario
di quest’opera è il pittore Marcel Jean, anche lui autore, assieme agli altri
tre pittori, di un Cadavere squisito del 1935 ed oggi conservato al Museum of
Modern Art di New York.
giovedì 31 maggio 2012
KANT: CRITICA DELLA RAGION PRATICA
Due cose riempiono
l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più
spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato
sopra di me, e la legge morale in me. Queste due cose io non ho bisogno di
cercarle e semplicemente supporle come se fossero avvolte nell’oscurità, o
fossero nel trascendente fuori del mio orizzonte; io le vedo davanti a me e le
connetto immediatamente con la coscienza della mia esistenza. La prima comincia
dal posto che io occupo nel mondo sensibile esterno, ed estende la connessione
in cui mi trovo a una grandezza interminabile, con mondi e mondi, e sistemi di
sistemi; e poi ancora ai tempi illimitati del loro movimento periodico, del
loro principio e della loro durata. La seconda comincia dal mio io
indivisibile, dalla mia personalità, e mi rappresenta in un mondo che ha la
vera infinitezza, ma che solo l’intelletto può penetrare, e con cui (ma perciò
anche in pari tempo con tutti quei mondi visibili) io mi riconosco in una
connessione non, come là, semplicemente accidentale, ma universale e
necessaria. Il primo spettacolo di una quantità innumerevole di mondi annulla
affatto la mia importanza di creatura animale che deve restituire al
pianeta (un semplice punto nell’Universo) la materia della quale si formò, dopo
essere stata provvista per breve tempo (e non si sa come) della forza vitale.
Il secondo, invece, eleva infinitamente il mio valore, come [valore] di una intelligenza,
mediante la mia personalità in cui la legge morale mi manifesta una vita
indipendente dall’animalità e anche dall’intero mondo sensibile, almeno per
quanto si può riferire dalla determinazione conforme ai fini della mia
esistenza mediante questa legge: la quale determinazione non è ristretta alle
condizioni e ai limiti di questa vita, ma si estende all’infinito.
martedì 22 maggio 2012
DE CONSOLATIONE PHILOSOPHIAE
Nel
De consolatione philosophiae Boezio
cercava nella filosofia una via di consolazione alle proprie disgrazie: in
essa, egli immagina di ricevere, durante la prigionia, la visita di una donna
che si rivela essere la Filosofia stessa, venuta a consolarlo del suo triste
stato e a fornirgliene una spiegazione teleologica. La Filosofia inizia col
ricordare a Boezio che ciò che egli sta vivendo lo vive proprio in quanto
filosofo: è, infatti, tipica dei veri discepoli della filosofia la tendenza a
dispiacere ai perversi. Ciò è dimostrato anche dal fatto che situazioni più o
meno analoghe sono state vissute da uomini altrettanto illustri e tra questi la
Filosofia ricorda Socrate e lo stesso Seneca, due grandi martiri della
filosofia. Proprio in virtù di quanto asserito dalla Filosofia, Boezio si
chiede come sia possibile che il mondo premi gli ingiusti mentre la Fortuna
si accanisca contro un uomo come lui che ha sempre difeso i diritti dei deboli.
A questa angosciata domanda, che chiude il libro I, la Filosofia risponde
dicendo che Boezio non deve temere, perché non alla fortuna è affidato il
mondo, ma alla divina ragione. Del resto (e ciò è l'argomento del II libro), la
felicità non è da ricercarsi nei beni materiali: questi ultimi, infatti, sono
tali che per procurarseli l'uomo deve inevitabilmente ricorrere a soluzioni
aberranti, stravolgendo il valore delle cose e finendo, così, per uccidere
proprio ciò in cui crede. Infatti, l'uomo che vuole superare gli altri in
onori, dovrà necessariamente disonorarsi umiliandosi servilmente per ottenere
gli onori cui aspira; allo stesso modo, chi cerca la ricchezza dovrà sottrarla
a chi la possiede; e ancora, se si vuole una vita all'insegna dei piaceri, si
finisce col suscitare ripugnanza. Eppure, la presenza di beni imperfetti
implica automaticamente l'idea della perfezione cui i beni imperfetti
partecipano. Dante stesso - che nel Convito chiama Boezio suo
consolatore e dottore - si ricorderà di queste riflessioni boeziane sulla
caducità dei beni terreni, quando nel Paradiso (X, 124-129) allude a
Boezio stesso, che l’ha iniziato alla filosofia. Ora, i beni materiali di per
sé non sono un male – come già diceva Plotino -, in quanto creati da Dio, ma
tali diventano se ci distolgono dai veri beni, quelli di natura spirituale:
finchè restiamo all’infimo livello della materialità, vediamo i beni materiali
come i supremi; ma non appena ci innalziamo a quelli spirituali, i beni
materiali ci appaiono insignificanti e minuti, proprio come quando – per
riprendere l’immagine che userà Petrarca nella sua ascesa al monte Ventoso –
saliamo in cima ad un monte vediamo piccolissimo ciò che sta sotto e che, prima
di salire, ci pareva enorme. La Filosofia conclude quindi che la felicità è Dio
stesso, inteso come sommo bene. Fin qui, i primi tre libri; nel libro IV, però,
viene sollevata l'inevitabile obiezione: se il mondo è governato da Dio e se
Dio è il sommo bene, come mai esiste il male? Si Deus est, unde malum?
Così si interroga lo stesso Agostino, e la tematica verrà lasciata in eredità
ai pensatori successivi, fino ai giorni nostri (ma, del resto, si Deus non
est, unde bonum?). A questa legittima domanda, la Filosofia risponde che
ciò che governa tutto è la Provvidenza, ossia la volontà divina stessa,
la quale però si serve del Fato, cioè la contingenza relativa alle cose
mutevoli. Gli uomini, che non conoscono questo stato di cose, non operano la
necessaria distinzione tra fato e provvidenza, sì che il verificarsi del male
nel mondo appare ad essi incomprensibile, tanto più quando a farne le spese
sono i virtuosi (pensiamo a Socrate e a Seneca). Ma una provvidenza che governa
il mondo non annulla la libertà dell'uomo? Boezio utilizza il V libro per dare
risposta a questo arduo problema: ciò che governa il mondo è provvidenza,
non previdenza; le azioni passate, presenti e future sono in Dio tutte
presenti: "se tu volessi valutare esattamente la previsione con cui
egli riconosce tutte le cose, dovresti giustamente ritenere che si tratti non
di prescienza di cose proiettate nel futuro, ma di conoscenza di un presente
che non viene mai meno. Onde si chiama, non previdenza, ma provvidenza"
(De consolatione philosophiae).
domenica 13 maggio 2012
DADAISMO
Il Dadaismo è un movimento artistico che nasce in
Svizzera nel XX secolo e più esattamente, durante il periodo della prima
guerra mondiale (1915-1918). A Zurigo infatti un gruppo di rifugiati
intellettuali formato da Richard Huelsenbeck, Hans Richter, Hans Arp, Tristan
Tzara, Marcel Janco, ai quali si uniranno Marcel Duchamp e Max Ernst, discutono
spesso al Cabaret Voltaire di un'arte nuova che deve stupire con manifestazioni
inusuali e provocatorie, così nasce il movimento dada. La parola Dada, che
identifica il movimento, non significa nulla e già in ciò vi è una prima
caratteristica del movimento: quella di rifiutare ogni atteggiamento razionalistico.
Il rifiuto della razionalità è ovviamente provocatorio e viene usato per
abbattere le convenzioni borghesi intorno all'arte. Pur di rinnegare la
razionalità i dadaisti non rifiutano alcun atteggiamento dissacratorio, e tutti
i mezzi sono idonei per giungere al loro fine ultimo: distruggere l'arte.
Distruzione assolutamente necessaria per poter ripartire con una nuova arte non
più sul piedistallo dei valori borghesi ma coincidente con la vita stessa e non
separata da essa. Tipico prodotto dada è il ready-made (già fatti o già
pronti), un prodotto ordinario tolto dall'oggetto originario e messo in mostra
come opera d'arte. Quindi un'opera d'arte può essere qualsiasi cosa, quindi
come conseguenza nulla è arte. L'opera dell'artista non consiste quindi nella
sua abilità manuale, ma nelle idee che riesce a proporre. Infatti, il valore
dei «ready-made» è solo nell'idea. Abolendo qualsiasi valore alla manualità
dell'artista, l'artista, non è più colui che sa fare delle cose con le proprie
mani, ma è colui che sa proporre nuovi significati alle cose. Dopo il suo
esordio a Zurigo, il Dadaismo si diffonde ben presto in Europa, soprattutto in
Germania e a Parigi, arrivando a lambire anche gli Stati Uniti, ma la vita del
movimento è abbastanza breve. Del resto non poteva essere diversamente. La
funzione principale del dadaismo era quello di distruggere una concezione
oramai vecchia e desueta dell'arte. E questa è una funzione che svolge in
maniera egregia, ma per poter divenire proposta necessita di una trasformazione,
e ciò avvenne tra il 1922 e il 1924, quando il dadaismo scomparve e nasce il surrealismo.