"Vedo
chiaramente nell'eguaglianza due tendenze: una che porta la mente
umana verso nuove conquiste e l'altra che la ridurrebbe volentieri a
non pensare più. Se in luogo di tutte le varie potenze che
impedirono o ritardarono lo slancio della ragione umana, i popoli
democratici sostituissero il potere assoluto della maggioranza, il
male non avrebbe fatto che cambiare carattere. Gli uomini non
avrebbero solo scoperto, cosa invece difficile, un nuovo aspetto
della servitù… Per me, quando sento la mano del potere
appesantirsi sulla mia fronte, poco m'importa di sapere chi mi
opprime, e non sono maggiormente disposto a infilare la testa sotto
il giogo solo perché un milione di braccia me lo porge". Sono
parole di Alexis Clérel de Tocqueville (1805-1859), il saggista
francese che conquistò la fama con due opere che, ciascuna nel suo
genere, sono rimaste esemplari: "La democrazia in America"
, scritta fra il 1832 e il 1840 e tuttora fondamentale per la
comprensione dell'ideologia e della vita sociale degli Stati Uniti, e
"L'antico regime e la Rivoluzione" , il volume pubblicato
nel 1856, che trasformò radicalmente i criteri interpretativi della
Rivoluzione francese. Diverse per il soggetto, le due opere
principali di Tocqueville sono legate fra loro dalla visione politica
dell'autore, che fu un liberale incline alla democrazia e, nello
stesso tempo, un critico acuto e profondo dei mali di questa. Il
problema dell'equilibrio fra la libertà individuale e il potere
democratico (lo Stato di massa, si direbbe oggi), che egli studiò
negli Stati Uniti e vide formarsi nell'Europa del suo tempo, è ora
il problema di tutto il mondo occidentale. In Italia sono stati
tradotti recentemente due libri che hanno acuito nuovamente
l'interesse per questo genio della storiografia e della sociologia
politica, seppure quest'ultima, ai suoi tempi, non esistesse ancora
come scienza a se stante. Tocqueville è un critico acuto e
preveggente dei mali democratici. Il brano riportato in principio
d'articolo de La democrazia in America mette a fuoco la posizione di
Tocqueville di fronte all'eguaglianza. Questo aristocratico era
convinto, a differenza di tanti borghesi liberali, che la Rivoluzione
avesse abbattuto il principio della libertà come privilegio di
un'altra classe, ma per sancire il diritto di tutti alla stessa
dignità umana. Lo Stato non era più concepibile senza libertà né
la libertà senza l'eguaglianza. Ma Tocqueville era troppo
intelligente per credere all'eguaglianza come realtà di fatto e non
come ideale morale e come condizione giuridica; e se comprese che il
garantismo oligarchico non esauriva le immense possibilità del
liberismo, comprese pure che l'ideale democratico della sovranità
conteneva il pericolo della dittatura della maggioranza o, peggio, di
una tirannia in nome del popolo, purché questo delegasse il potere,
o se lo lasciasse strappare. Andando in America nel 1831, Tocqueville
ci vide qualcosa di più che l'America stessa, ci vide l'immagine
della democrazia quale si stava formando anche in Europa. Negli Stati
Uniti, insieme agli aspetti positivi della democrazia, notò anche,
già operanti, i difetti dell'eguaglianza e della sovranità
popolare. Il diritto della maggioranza a governare, egli scrive, le
dà "un immenso potere di fatto e un potere d'opinione e nulla
più, delle contee e degli Stati, dall'indipendenza della
magistratura e dalla sua altrettanto grande mobilità" i cui
effetti negativi sono l'instabilità governativa, l'onnipotenza dei
governi, la scarsa garanzia contro gli abusi (perché l'opinione
pubblica forma la maggioranza, il corpo legislativo la rappresenta e
il potere esecutivo ne è lo strumento); e anche l'amore per il
benessere, l'accentramento del potere, il conformismo: "Non
conosco un paese dove regni meno l'indipendenza di spirito e meno
autentica libertà di discussione che in America… Il padrone non vi
dice più: "pensate come me o morrete"; ma dice: "siete
libero di non pensare come me; la vostra vita, i vostri beni, tutto
vi resterà, ma da questo istante siete uno straniero fra noi".
Dalla visione dell'America contemporanea dedusse un'agghiacciante ed
esatta previsione del mondo futuro: "Se cerco di immaginare il
dispotismo moderno, vedo una folla smisurata di esseri simili ed
eguali che volteggiano su se stessi per procurarsi piccoli e meschini
piaceri di cui si pasce la loro anima… Al di sopra di questa folla,
vedo innalzarsi un immenso potere tutelare, che si occupa da solo di
assicurare ai sudditi il benessere e di vegliare sulle loro sorti. È
assoluto, minuzioso, metodico, previdente, e persino mite.
Assomiglierebbe alla potestà paterna, se avesse per scopo, come
quella, di preparare gli uomini alla virilità. Ma, al contrario, non
cerca che di tenerli in un'infanzia perpetua. Lavora volentieri alla
felicità dei cittadini ma vuole esserne l'unico agente, l'unico
arbitro. Provvede alla loro sicurezza, ai loro bisogni, facilita i
loro piaceri, dirige gli affari, le industrie, regola le successioni,
divide le eredità: non toglierebbe forse loro anche la forza di
vivere e di pensare?". Triste e veritiera profezia: l'Europa del
Novecento ha conosciuto e conosce queste tirannie, e anche i paesi
che si credono liberi ogni giorno sprofondano sempre più nelle
sabbie mobili, stranamente allettevoli, del paternalismo autoritario
che nasce dalla stessa democrazia. Come non pensare, oggi, ai
meschini piaceri della Tv e del fanatismo sportivo? Nell'America del
suo tempo, Tocqueville vide che le garanzie contro la "tirannia
della maggioranza" erano costituite da diversi fattori. Innanzi
tutto, la tradizione protestante-puritana dava all'individuo la
certezza del suo valore assoluto come persona, dotata di diritti
inalienabili e fonte di ogni rapporto sociale. Questa consapevolezza
individualistica era aiutata dal decentramento amministrativo dal
moltiplicarsi delle autorità e delle associazioni locali,
dall'autonomia dei municautorità sul potere politico: un'autorità
costituita dal diritto di dichiarare incostituzionali le leggi, dalla
diffusione dello spirito giuridico, dovuta anche all'istituto della
giuria estesa agli affari penali, e della giuria estesa agli affari
civili, e dalla libertà di stampa, giudicata "infinitamente
preziosa". Ma soprattutto l'esperienza americana l'aveva
convinto, contro la tesi dell'Illuminismo, della stretta dipendenza
del concetto di libertà dalla "rivoluzione cristiana":
"Dubito che l'uomo - scriveva Tocqueville - possa sopportare
insieme una completa indipendenza religiosa e una libertà politica
senza limiti; sono anzi portato a pensare che, se non ha fede, sia
condannato a servire e, se è libero, non possa non credere".
Per queste ragioni, l'America presentò a Tocqueville un equilibrio
fra la fonte democratica del potere e il suo esercizio liberale, un
equilibrio che egli intuì mancante all'Europa, anche per effetto
della Rivoluzione francese. Si rivolse quindi allo studio di questa,
ed ebbe la conferma di ciò che aveva scritto nell'"Introduzione"
e La democrazia in America: la tendenza all'eguaglianza delle
condizioni si era manifestata in Europa, e specialmente in Francia,
già nel Medio Evo ed era progredita in modo formidabile negli ultimi
tempi della monarchia francese. Così, sviluppando ne L'antico regime
e la Rivoluzione i concetti espressi in uno studio pubblicato su una
rivista inglese nel 1836, Tocqueville, contro tutti gli storici del
suo tempo, quali che fossero le loro tendenze, mise in luce per la
prima volta che la Rivoluzione non era stata una "catastrofe"
radicalmente innovatrice che, operando un capovolgimento del mondo,
avesse creato una realtà totalmente nuova: la Rivoluzione fu il
logico proseguimento di un'evoluzione in corso da secoli, che tendeva
a sostituire uno Stato fondato sull'eguaglianza e amministrato con
uniformità dal centro a uno Stato fondato sul privilegio e la cui
amministrazione era frazionata fra i feudatari, l'anzianità, la
forza, gli stessi successi che la tendenza egualitaria e
accentratrice aveva conseguito prima dell'89 spiegano perché questa
tendenza prevalesse, durante e dopo la Rivoluzione, sull'orientamento
liberale, più recente e meno diffuso. Quindi, anche in Francia,
anche in Europa, il problema della democrazia è lo stesso che in
America: La sopravvivenza della sua forma liberale è connessa più
con l'educazione alla libertà e con le garanzie per l'autonomia
dell'individuo che con la difesa della mera eguaglianza. È facile
essere eguali nella servitù, più difficile, ma necessario, essere
liberi nell'eguaglianza.