martedì 11 dicembre 2012

MONTESQUIEU



Charles-Luis de Secondat , barone di Montesquieu, era figlio di Jacques de Secondat, barone di Montesquieu (1654-1713) e di Marie- Françoise de Pesnel, baronessa di la Brède (1665-1696): nacque da una famiglia di magistrati appartenenti alla cosiddetta nobiltà di toga, nel castello di la Brède, nei pressi di Bordeaux. Montesquieu fu sempre fiero del nome che portava. Dopo aver frequentato il collegio di Juilly e seguito gli studi di diritto, divenne nel 1714 consigliere del parlamento di Bordeaux. Nel 1715 sposò Jeanne de Lartigue, una giovane di religione protestante proveniente da una ricca famiglia di recente nobiltà che gli portò una grossa dote. Alla morte dello zio nel 1716 ereditò una vera fortuna, con la carica di Presidente del parlamento di Bordeaux e la baronia di Montesquieu. Abbandonate le cariche appena possibile, si interessò al mondo ed al divertimento. In quell'epoca l'Inghilterra s'era appena costituita in monarchia costituzionale in seguito alla Gloriosa rivoluzione (1688 – 1689) e si era unita alla Scozia nel 1707 per formare la Gran Bretagna. Nel 1715 il Re Sole era morto dopo un lunghissimo periodo di regno e gli era succeduto un re più debole. Queste trasformazioni nazionali lo influenzarono molto e ad esse si riferirà sovente nelle sue opere. La sua passione per le scienze lo condusse ad esperimenti scientifici (anatomia, botanica, fisica, etc). Egli scrisse su questi argomenti tre comunicazioni scientifiche. Quindi orientò la sua curiosità verso la politica e l'analisi della società attraverso la letteratura e la filosofia. Nel 1721 pubblicò anonimamente ad Amsterdam le "Lettere persiane" che conobbero un notevole successo. Dopo la sua elezione nella Académie française (1728) si dedicò ad una serie di lunghi viaggi attraverso l'Europa: Austria, Ungheria, Italia (1728), Germania (1729), Olanda ed Inghilterra (1730) nella quale soggiornò più di un anno. In questi viaggi si occupò attentamente della geografia, della economia della politica e dei costumi dei paesi che visitava. Nel 1734, pubblicò una riflessione storica intitolata Considérations sur les causes de la grandeur des Romains et de leur décadence (Considerazioni sulle cause della grandezza dei romani e della loro decadenza), coronamento dei suoiviaggi, e raccolse numerosi documenti per preparare l'opera della sua vita: De l'esprit des lois (Lo spirito delle leggi) Pubblicato in forma anonima nel 1748 questo capolavoro ebbe un successo enorme. Esso stabilisce i principi fondamentali delle scienze economiche e sociali e concentra tutta la sostanza del pensiero liberale. Il libro ebbe un successo particolare in Gran Bretagna. A seguito degli attacchi che il suo scritto subì, Montesquieu pubblicò nel 1750 la Défense de l'Esprit des lois (Difesa dello spirito delle leggi). Dopo la pubblicazione del Lo spirito delle leggi Montesquieu fu circondato da un vero e proprio culto. Afflitto dalla quasi totale perdita della vista, riuscì a partecipare comunque all'Enciclopedia. Morì a causa di una forte infiammazione. Il suo capolavoro filosofico è Lo spirito delle leggi , che vide la luce nel 1748 . Anche dopo la pubblicazione , continuò a rielaborare l' opera fino al 1755 , anno in cui morì . Uno scritto giovanile di Montesquieu, Le lettere persiane del 1721 , presenta i caratteri consueti a molte opere appartenenti al primo illuminismo , in cui la critica alla società è ancora celata dalla finzione letteraria : in questo romanzo epistolare si immagina un gruppo di persiani in visita a Parigi che descrivono tramite lettere ai loro corrispondenti iraniani vita e costumi di una società cattolica e assolutistica, con sguardo distaccato, nella loro nuda oggettività:l' ovvio e il quotidiano diventano l'assurdo e il grottesco e il lettore viene abituato all' ottica del relativismo culturale : la Francia e l' Europa non sono più il centro , ma solo un angolo del mondo ; ciò che a noi europei pare banale e ovvio perchè ci siamo abituati , agli Iraniani sembrerà ridicolo e bislacco .Una simile operazione , naturalmente , la si potrà compiere con un cinese o con un pellerossa . Ma nelle successive Considerazioni sulle cause della grandezza dei Romani e della loro decadenza (1734) , sia pure in uno stile ancora brioso e letteralmente efficace , Montesquieu muta registro. Alla critica del costume subentra un' analisi critica della storia romana , nella quale l' autore non si limita alla ricostruzione filologica (in questo anzi consegue risultati talvolta dubbi) , ma tenta di ricercare i principi politici e sociali che spiegano tanto lo sviluppo tanto la decadenza di Roma . Se nelle Considerazioni la spiegazione dei fatti socio-politici mediante princìpi generali era applicata al caso specifico della storia romana , nel maturo Spirito delle leggi essa viene generalizzata , dando luogo alla costruzione di una vera e propria scienza delle società : Infatti , Montesquieu - che è stato da taluni considerato l' iniziatore della moderna sociologia - intende ritrovare le sue cause generali che presiedono allo sviluppo delle diverse istituzioni socio politiche , pur non dimenticando il carattere specifico delle singole nazioni e dei singoli momenti storici . Per realizzare questo disegno egli individua tre forme di governo , distinte sia in base al numero di coloro che detengono il potere sia in base al modo in cui esso viene esercitato . A ciascuna di queste forme di governo corrisponde un principio, inteso nel duplice senso di fattore originario e di elemento costitutivo , al quale esse devono mantenersi fedeli se vogliono conservarsi a lungo. Nel governo repubblicano - distinto a sua volta in democratico e aristocratico- il potere è ritenuto da più persone (rispettivamente tutti o alcuni cittadini) ed è esercitato in conformità alla legge : il suo principio è la virtù . Nel governo monarchico il potere è detenuto da uno solo , ancora in conformità alla legge : il suo principio è l' onore. Nel governo dispotico il potere è tenuto da uno solo , ma è esercitato in modo arbitrario : il suo principio è la paura . Montesquieu , pur non nascondendo le sue simpatie per la soluzione monarchica di tipo costituzionale (sul modello inglese) , ritiene che non si possa stabilire in assoluto quale di queste tre forme di governo sia la migliore . La validità di ciascuna di esse è relativa al popolo cui si applica . L' intento di Montesquieu non è quindi quello di indicare un ordine preferenziale , ma piuttosto di ricercare la serie delle condizioni - sociali , geografiche , giuridiche ecc. - necessarie perchè ciascuna forma di governo , con il suo principio , possa svilupparsi e mantenersi . L' insieme di questi rapporti (il clima , il territorio , le istituzioni ecc.) è ciò che egli chiama spirito delle leggi . Montesquieu si preoccupa anche di determinare la condizione generale per il mantenimento della libertàpolitica , la quale condizione può valere indifferentemente per le forme di governo repubblicana - cioè democratica o aristocratica - e monarchica (al dispotismo non si può applicare , poichè il suo principio , la paura , esclude la libertà) . Essa consiste nella divisione dei poteri - legislativo , esecutivo , e giudiziario - che Montesquieu aveva visto realizzata nella costituzione inglese . La teoria della divisione dei poteri era stata concepita già da Locke limitatamente ai primi due poteri (per Locke il terzo potere non era quello giudiziario , ma quello fededrativo , e dipende dal potere esecutivo) e perfezionata successivamente da Henry Saint-John Bolingbroke (1678-1751) , con il quale Montesquieu venne in contatto nel suo viaggio in Inghilterra . Attraverso Montesquieu essa entra definitivamente nel patrimonio politico e culturale francese ed europeo .

giovedì 1 novembre 2012

TORRE DI BABELE


Per secoli si è creduto che la vicenda della Torre non fosse altro che una storia per dimostrare l’arroganza degli uomini, un esempio da non seguire, fino a quando Koldeway nel 1899,  iniziò gli scavi nella zona del Kasr. La torre di Babele quindi, non era altro che lo ziggurat di Babilonia. Secondo la Bibbia, Babilonia fu fondata da un certo Nimrod. Dopo poco tempo, egli divenne arrogante e si mise ad adorare idoli di legno e di pietra, e si convinse di sfidare per vendicare i suoi avi uccisi dal diluvio. Decise che avrebbe costruito una torre altissima, che sarebbe stata usata dal suo esercito per combattere contro Dio. Sul lato orientale e sul lato occidentale della torre, c’erano sette scale che agevolavano il lavoro.  Prima ancora che la torre fosse finita, Nimrod ordinò al suo esercito di scagliare delle frecce contro il cielo. Dio allora disse ai settanta angeli: "Scendiamo tra loro e confondiamo il loro linguaggio, in modo che invece di una sola lingua ne parlino settanta". Fatto ciò, gli operai smisero di capirsi e la costruzione della torre rallentò fino a fermarsi ed in seguito venne distrutta da un terremoto e da un incendio. Le stirpi degli uomini che avevano partecipato alla costruzione della torre vennero disperse sulla Terra. Alcuni studiosi hanno contestato l’ipotesi che la città di Nimrod fosse Babilonia a causa del seguente errore linguistico: il termine babilonese ba-bili, significava “porta di Dio”, mentre il termine ebraico balal voleva dire confusione. Quando Koldewey scavò alla ricerca della torre, trovo solamente le sue fondamenta.  Era possibile quindi che una volta crollata (come quella della Bibbia) fosse stata ricostruita, e questo è confermato anche da numerose iscrizioni. La torre si elevava in enormi gradini ed Erodoto ci dice che: “Nel centro del sacro edificio è costruita una torre massiccia, sopra questa torre ve ne è un’altra sovrapposta, e un’altra ancora sopra la seconda, e così fino a otto torri (gradini)”. Le terrazze a gradini erano ricoperte di piastrelle a colori brillanti ed ognuna di un colore diverso. Lo ziggurat era chiamato Etementaki, “la pietra angolare del cielo e della terra” e sorgeva all’interno di un recinto chiamato “Sachn”. I suoi lati erano orientati secondo i punti cardinali. Le fondamenta della costruzione erano larghe e alte e lo dimostra il tempio di Marduk, la divinità protettrice di Babilonia. Tutte le città babilonesi avevano il proprio ziggurat, che ogni qual volta cadeva, veniva ricostruito. Lo ziggurat  serviva a tutta la comunità che venerava il dio Marduk e sulla cima della torre di Babilonia, c’era infatti un tempio dedicato a Marduk, al cui interno non si trovavano né statue né ori ma solo un divano; questo edificio sacro era inaccessibile al popolo: c’era solamente una donna prescelta  che notte dopo notte aspettava di soddisfare i piaceri del dio. Dopo  la morte di Nebukadnezar, Ciro il persiano nel 539 a.C. si impadronì della città, ma per non distrusse né la torre, né gli altri edifici sacri. Dopo di lui, Serse non lasciò che macerie, le stesse che  Koldewey  e la sua squadra dovettero sgomberare per riportare alla luce l’antica città: E sembrano adatte le parole del profeta Geremia: "E ci abiteranno gli animali del deserto e i cani selvatici, e non sarà mai più abitata, e nessuno vi abiterà per tutti i tempi che verranno".  Ancora oggi molte zone del tempio Esagila e della città stessa che ospitava Etemenanki rimangono ancora nell'oscurità.


domenica 7 ottobre 2012

AGNOSTICISMO




L' agnosticismo (dal greco a-gnothein let. non sapere) è una posizione concettuale in cui si sospende il giudizio rispetto a un problema poiché non se ne ha (o non se ne può avere) sufficiente conoscenza. L'agnostico afferma cioè di non sapere la risposta, oppure afferma che non è umanamente conoscibile una risposta, e che per questo non può esprimersi in modo certo sul problema esposto. Questa posizione è solitamente assunta rispetto al problema della conoscenza di Dio, ma può anche riguardare l'etica, la politica o la società. Si suole distinguere, riguardo alle persone non credenti in una religione, tra ateismo e agnosticisimo. La differenza sta nel fatto che, mentre l'agnostico afferma semplicemente l'impossibilità di conoscere la verità sull'esistenza di Dio o di altre forze soprannaturali, l'ateo, al contrario, afferma con certezza che non esiste alcun Dio o un qualsiasi altro tipo di forza superiore. In pratica la posizione "agnostica" deriva dallo scetticismo, che praticava una simile ma più radicale sospensione del giudizio nell'epistemologia, ritenendo tutta la conoscenza umana sempre dubitabile e perfettibile. Gli agnostici non sono necessariamente indifferenti al problema della fede e all'attività spirituale o religiosa. Molti di coloro che stanno attivamente cercando una fede o sono in dubbio, hanno sostanzialmente una posizione agnostica, paragonabile al dubbio metodologico nella filosofia.   Il termine fu usato la prima volta nel 1869 dal naturalista britannico Thomas Henry Huxley, per descrivere la sua posizione rispetto alla credenza in Dio; il termine deriva come contrapposizione alle antiche dottrine cristiane gnostiche, che affermano che la conoscenza della realtà ultima (gnosi) è interiore a ogni uomo. La posizione agnostica diviene permanente in vari filosofi post-kantiani, che come dimostrò Immanuel Kant ritengono  che la ragione che pretende di parlare dell'incondizionato cade in contraddizione, tanto per dimostrarne l'esistenza quanto per negarla.                                                                                                                                       

domenica 9 settembre 2012

NIRVANA BUDDISTA



Il Buddhismo sostiene una reincarnazione nelle diverse specie di esistenza. La comparsa nel mondo può essere interrotta, se il Karma è particolarmente cattivo, da pene infernali di lunga durata, mentre d’altra parte le buone azioni sono premiate con la dimora in un mondo divino. Questi cieli hanno una disposizione a piani sovrapposti, e quanto più in alto sono collocati, tanto maggiori sono le perfezioni di coloro che vi dimorano. Tuttavia il piacevole soggiorno nei mondi divini non è per il saggio un fine degno d’essere ottenuto a tutti i costi, poiché anche l’esistenza celeste è destinata ad aver fine, con il ritorno ai dolori della terra. La liberazione finale dalle sofferenze e dalle passioni è garantita solo dal raggiungimento del Nirvana. Il Nirvana (dispersione, estinzione), secondo la dottrina del Hinayana è la liberazione, già realizzabile in questa vita, dai tre peccati capitali: odio, cupidigia ed illusione. Con la morte, il santo raggiunge una condizione in cui tutti i gruppi di fattori esistenziali che formavano la sua Personalità, vengono annientati senza possibilità che ne sorgano di nuovi. Il nirvana perciò, dal punto di vista dell'uomo posto nel mondo è il nulla, per cui spesso viene paragonato allo spazio vuoto. In realtà è un nulla relativo, non assoluto, poiché da quelli che lo hanno ottenuto viene sentito come una gioia ineffabile, soprannaturale. Il Maháyána, almeno in alcuni testi e scuole, designa questo nirvana, che è simile "a una lampada che si spegne", come un nirvana inferiore. Il supremo nirvana, quello vero, cui tende il bodhisattva, non è una condizione statica, bensí dinamica, di superiorità sul mondo: in esso il santo, libero dall'ignoranza, dalla passione, dal dolore e dal karma, opera eternamente e in modo costante per il bene di ogni essere vivente. Il buddhismo insegna che è possibile una liberazione di singoli individui, ma non una liberazione universale, poiché il numero degli esseri sulla terra è infinitamente grande. Il singolo però può raggiungere la salvezza solo nel corso di innumerevoli esistenze, liberandosi a poco a poco da tutti gli impulsi e dall'illusione della presenza di un'individualità perdurante e di un mondo formato di sostanze eterne. Il santo maháyána Aryadeva compendia la via della salvezza nelle seguenti parole: "In primo luogo a tutto ciò che è male rinuncia, e poi a credere nell'Io, renditi infine libero da tutto, e allora certo diverrai un saggio".


martedì 28 agosto 2012

LUDWIG WITTGENSTEIN


Nato a Vienna da una famiglia alto borghese di religione ebraica, Ludwig Wittgenstein (1889-1951) si trovò immerso sin dall'infanzia in un clima intellettuale molto vivace ed inquieto. Nel primo quindicennio del Novecento Vienna era uno degli epicentri della cultura europea d'avanguardia: Freud vi aveva aperto il proprio gabinetto medico, e di lì andava organizzando il movimento psicoanalitico. In ambito filosofico-scientifico, Mach vi aveva appena pubblicato Conoscenza ed errore (1905) e stava ulteriormente approfondendo la critica al positivismo e le sue originali tesi empiriocriticiste, che tanta influenza avranno di lì a poco sui fondatori della scuola neopositivistica (anch'essa di origine viennese). E uno dei tratti caratterizzanti della cultura viennese di questo periodo è il profondo interessamento per la problematica del linguaggio, centrale nell'arte non meno che nella filosofia e nella scienza: un interesse testimoniato dalla riflessione di tanti viennesi sulla crisi di certe forme espressive, dalla correlativa ricerca di nuove forme (la dodecafonia in ambito musicale) e, in sede più speculativa, da un rinnovato studio del linguaggio sia in sé e per sé, sia nel suo rapporto col sapere e col mondo. E il principale tema di indagine di Wittgenstein fu appunto il linguaggio. A partire dal 1908 egli trascorse lunghi periodi di studio in Gran Bretagna, dapprima come studente di ingegneria all'università di Manchester e poi, dietro consiglio di Frege, come studente di logica e filosofia a Cambridge, sotto la guida di Russell (che all'epoca stava ultimando i Principia mathematica ), al quale si legò profondamente. E non a caso proprio in questo ambiente Wittgenstein elabora il primo nucleo di quello che sarà il suo capolavoro: il Tractatus logico-philosophicus , l'unica opera che egli volle dare alle stampe (fu pubblicato prima in una rivista austriaca nel 1921 e poi, nel 1922, a Londra, con una lunga introduzione di Russell). Nonostante lo stile arduo e inconsueto, il Tractatus fu accolto con vivissimo interesse sia in Inghilterra (il titolo dell'opera era stato suggerito da Moore), sia in Austria, dove presto diverrà un testo di riferimento fondamentale per i membri del Circolo di Vienna. Ma Wittgenstei non partecipò quasi mai ai dibattiti divampati dalla sua opera, né tanto meno entrò nel gruppo dei "circolisti" viennesi (dai quali si sentiva assai distante). Per vari anni sembrò anzi volersi allontanare dalla filosofia stessa, insegnando come modesto maestro elementare in alcuni paesi austriaci. Solo alla fine degli anni '20 si arrese alle insistenze pressanti degli amici uscendo dal suo volontario isolamento. Nel 1929 tornò a Cambridge, dove stette per il resto della sua vita, circondato da una nutrita schiera di fedeli discepoli. Pur non pubblicando nulla, Wittgenstein riprese intensamente la propria riflessione e ricerca filosofica. Il punto di partenza fu nuovamente la problematica del linguaggio e del suo rapporto col mondo: ma fin dall'inizio egli non tacque la sua insoddisfazione nei confronti di molte delle tesi esposte nel Tractatus . I numerosi appunti che lasciò manoscritti ( Osservazioni filosofiche , 1929-30; Grammatica filosofica , 1932-34; Libro blu , 1933-34; Libro marrone , 1934-35), e che vennero pubblicati postumi, attestano il rilievo della sua evoluzione teorica in questo periodo. Altro e più consistente materiale inedito, in parte risalente ad un'epoca posteriore, prova che Wittgenstein andava realmente disegnando le linee di una nuova filosofia (e così si è potuto parlare di un "secondo Wittgenstein"): una filosofia che, esposta nei celebri seminari wittgensteiniani in un modo che è stato definito "socratico", ebbe una grande risonanza non solo entro la cerchia dei diretti discepoli ma anche in un'area non piccola del pensiero inglese del tempo. Una parte del materiale appena citato venne dato alle stampe nel 1953 sotto il titolo di Ricerche filosofiche . Nonostante lo stato relativamente incompiuto, questa nuova opera fu salutata come il secondo grande libro di Wittgenstein; essa ha esercitato una grande influenza sul pensiero novecentesco: un'influenza forse anche maggiore di quella del Tractatus . Altri testi rilevanti ricavati dagli scritti inediti del filosofo sono le Osservazioni sui fondamenti della matematica (1937-44), le Osservazioni sui fondamenti della psicologia (seconda metà degli anni '40), Zettel (1945-48), Della certezza (1950-51) e le Osservazioni sul 'Ramo d'oro' di Frazer (composte nel 1931, ma con alcune aggiunte molto posteriori). Ulteriori pagine diaristiche e autobiografiche e altre di interesse etico, religioso ed estetico sono state pubblicate in tempi e luoghi diversi (molto importanti sono anche le epistole).


domenica 12 agosto 2012

INTRODUZIONE ALL' ESTETICA

L’estetica come disciplina filosofica specifica nasce alla fine del Settecento e si configura pertanto come un fenomeno essenzialmente moderno; essa nasce come tentativo di fornire una legittimazione universale ad un ambito che, malgrado la molteplicità di tesi e precetti, non era ancora divenuto oggetto di riflessione sistematica. Questo ambito è caratterizzato dall’emergere in primo piano della soggettività con le sue manifestazioni, in particolare il sentimento individuale: questo particolare stato affettivo, che inizia ad essere concepito sul piano filosofico come la fonte delle emozioni, era sconosciuto nell’antichità, dove invece prevaleva la nozione di passione, ancora ampiamente utilizzata fino a tutto il Seicento. A partire dal Settecento, il sentimento va invece ad indicare il riflesso soggettivo che accompagna ogni nostra esperienza e si configura come terzo ambito fondamentale della nostra vita spirituale, accanto ad intelletto e volontà; tale nozione non appare caratterizzata da connotazioni di ordine psicologico e trova il suo terreno di applicazione unicamente in ambito estetico e morale. L’estetica come disciplina filosofica nasce quindi come tentativo di fondare in modo critico un settore che appare, per le tematiche affrontate, votato fin dall’inizio all’accidente e all’irrazionalità e mira a dettare le condizioni di universalità e di necessità per un tipo di esperienza che, ad una prima analisi, ne è priva. L’estetica, come fenomeno moderno, si sviluppa in un’area culturale, quella di lingua tedesca, che alla fine del Settecento offre alla cultura contributi decisivi nel campo della letteratura (Goethe, Novalis, Schiller, Hölderlin, ecc..) e della musica (Mozart, Beethoven, Schubert) e si radica in un tessuto sociale in cui si qualifica in modo molto chiaro e preciso l’esperienza sociale dell’arte. Il momento in cui infatti nasce l’estetica filosofica è anche quello in cui si delinea in modo definitivo e stabile la figura dell’artista come soggetto in grado di produrre le opere d’arte, quel particolare tipo di oggetti cioè che vengono concepiti sotto la comune categoria della qualità estetica. Tale processo ha inizio a partire dal Rinascimento, mentre precedentemente, nel mondo greco, romano e medievale, l’attività artistica è sempre rimasta, sul piano teorico e sul piano pratico, al di sotto di quel livello di unificazione e specificazione oltre il quale poteva divenire oggetto di una specifica teoria estetica. Ciò tuttavia non significa che le epoche e le civiltà precedenti il Rinascimento non siano state in grado di produrre opere d’arte valide come quelle realizzate negli ultimi quattro secoli; tuttavia la categoria di arte come noi la conosciamo e la pratichiamo oggi era sconosciuta ai greci, ai romani e alla civiltà medievale. Ciò peraltro non rappresenta necessariamente un limite negativo di queste culture: l’estetica più recente si è chiesta infatti se l’arte come attività distinta dalle altre attività dell’uomo non sia il frutto di una specifica forma di “alienazione”, una conseguenza cioè di quel processo di divisione del lavoro che viene visto come motivo di lacerazione dell’integrità dell’esperienza, sia sul piano individuale che su quello sociale. 

domenica 5 agosto 2012

ESOTERISMO


Dottrina o complesso di dottrine di carattere segreto. All'origine della parola esoterismo sta l'aggettivo greco esoterikos (interno), usato per indicare insegnamenti riservati a una cerchia ristretta di discepoli, in contrapposizione a exoterikos -essoterico- (esterno), che si riferiva a insegnamenti indirizzati a tutti. Le dottrine esoteriche si configurano entro fenomeni culturali come la magia, l'alchimia, le religioni misteriche e gnostiche, la qabbalah. In queste forme di cultura la presenza del segreto può essere intesa in due modi: come presenza di un segreto che è nei meccanismi dell'universo e che resta inaccessibile per gli stessi iniziati (i quali sono iniziati alla venerazione del segreto in quanto tale, non alla sua penetrazione); oppure come presenza di un segreto che si attua nel patto reciproco di silenzio degli iniziati verso i profani. Questi due modi diversi corrispondono storicamente al prevalere di istanze di mistica (segreto tale anche per gli iniziati) o di istanze di magia (segreto che gli iniziati conoscono, o quanto meno sfruttano, ma che essi tacciono ai profani). Si trova usata come sinonimo di esoterismo la parola occultismo. É più esatto però riconoscere nell'occultismo solo una forma particolare di esoterismo, in quanto esso, da un lato, configura il segreto come conoscibile con tecniche appropriate, e dall'altro non implica sempre il vincolo del segreto verso i profani.     Elementi caratterizzati dall'esoterismo sono presenti ai più vari livelli di civiltà. Nelle culture cosiddette primitive rientrano in questo settore i rituali di iniziazione, in genere segreti, e che nella maggior parte dei casi stabiliscono una distinzione di status tra gli iniziati da un lato, e i non iniziati dall'altro; per es.. solo gli uomini, la cui maturità è sanzionata dalla cerimonia stessa, possono partecipare a determinati riti e conoscere pienamente la tradizione e tutto il patrimonio sacro della tribù. Nella maggior parte delle religioni che pure non sono in sé e per sé esoteriche si trova integrata una qualche forma più o meno marginale o ereticale di esoterismo. É il caso delle correnti esoteriche sviluppatesi in Estremo Oriente a fianco del brahmanesimo e del buddhismo (tantrismo, buddhismo zen ecc) o nel Vicino Oriente a fianco dell'islamismo (sufismo). Vi sono numerose accezioni esoteriche del cristianesimo: da quelle di presunta impronta gnostica del periodo delle origini, a quelle medievali forse influenzate dal manicheismo, a quelle della cosiddetta qabbalah cristiana del rinascimento (collegata alla tradizione ebraica), a quelle dei periodi di "risveglio" religioso nei secoli XVII-XVIII, al cattolicesimo esoterico francese e bavarese del sec. XIX ecc. Altre forme di esoterismo sono relativamente autonome dalle religioni costituite e quasi rappresentano religioni a sé stanti: l'esoterismo neopagano del rinascimento, collegato al recupero del neoplatonismo; nei secoli XVIII-XIX il martinezismo e il martinismo; entro certi limiti, la stessa massoneria e, nel sec. XX, la teosofia e l'antroposofia (Rudolph Steiner). É frequente, specialmente in queste forme di esoterismo che quasi costituiscono religioni autonome, una particolare attenzione per i sistemi simbolici delle culture dell'antichità, nei quali si presume di riconoscere il patrimonio cifrato di una sapienza perduta. Per questa ragione gli esoteristi dei secoli XVIII e XIX hanno dato contributi a volte molto perituri, a volte di lunga influenza e (nonostante le bizzarrie) di indubbia acutezza, alla scienza della mitologia. Studiosi, e spesso anche cultori in prima persona, dell'esoterismo hanno inoltre analizzato nei secoli XIX e XX documenti letterari e artistici, riconoscendovi, in modo a volte attendibile, linguaggi esoterici; hanno parlato di esoterismo nel linguaggio degli stilnovisti e di Dante; individuato simboli alchemici nell'architettura e nelle sculture delle cattedrali medievali; indagato i valori esoterici di testi di Avicenna; dei testi medievali relativi alla leggenda del Graal. Vi furono, del resto. scrittori dei secoli XIX-XX che ebbero speciale gusto per l'esoterismo o che addirittura si ritennero innanzitutto esoteristi.


domenica 29 luglio 2012

CARL GUSTAV JUNG


Carl Gustav Jung nasce a Kesswil, sul lago di Costanza (Svizzera) il 26 luglio 1875. Figlio di un pastore protestante, consegue la laurea in Medicina e nel 1900 entra a lavorare nell' ospedale psichiatrico di Zurigo. Attraverso gli studi di medicina si avvicina alla psichiatria. Per alcuni anni è uno degli allievi prediletti di Sigmund Freud, che lo fa avvicinare alla psicoanalisi. Jung diviene forte sostenitore delle teorie del maestro, tuttavia appaiono presto delle divergenze tra i due, profondamente diversi nel carattere. Nel 1912 - con la pubblicazione del suo volume "Trasformazioni e simboli della libido" - il rapporto tra Jung e Freud si interrompe. Lo svizzero inizia a elaborare una nuova teoria, detta poi psicologia analitica, che rispetto alle teorie freudiane, si caratterizza per una maggiore apertura verso gli elementi non razionali della psiche. Jung è persona di grande cultura: studia a fondo i temi mitologici, letterari e religiosi di tutti i tempi e di tutti i paesi. Viaggia molto: a partire dal 1920 visita Africa, India e Nord America. Nel 1921 pubblica il saggio "Tipi psicologici". Durante il suo peregrinare entra in contatto con numerose popolazioni di cui studia miti, rituali, usi e costumi. Oltre all'inconscio personale del singolo individuo, Jung è convinto esista anche un inconscio collettivo comune agli uomini di tutti i tempi. I contenuti di questo inconscio collettivo, nel corso dei secoli si sarebbero espressi in immagini, miti e credenze religiose che egli ritrova, in modo identico, nelle culture di popoli di epoche e luoghi diversi. Nelle sue teorie gli archetipi - che chiama "immagini originarie" - rivestono un ruolo fondamentale. Gli archetipi sono contenuti inconsci che fungono da produttori e ordinatori di rappresentazioni: una sorta di modello presente in modo innato nella psiche dell'essere umano. Nel 1930 viene nominato presidente onorario della "Società tedesca di psicoterapia"; dopo l' avvento del nazismo (1933) non dà le dimissioni, collabora invece con Hermann Göring, fino al 1940, alla riorganizzazione della Società. Ai viaggi e all'elaborazione della psicologia analitica, Jung affianca una intensa attività terapeutica, che svolge nei pressi di Zurigo. Qui fonda un istituto che porta il suo nome (Carl Gustav Jung Institut): fa costruire una torre, luogo simbolo di rifugio e di meditazione. Insegna teoria e metodi di quella che, per distinguerla dalla psicoanalisi freudiana, è ormai definita "psicologia analitica". Nel 1944 pubblica "Psicologia e alchimia", ma nello stesso anno subisce un incidente, una frattura e un successivo infarto. In coma, vive un'esperienza di pre-morte che descriverà poi nel testo autobiografico "Ricordi, sogni e riflessioni". Nel 1952 pubblica importanti scritti sulla "teoria della Sincronicità". A partire dagli anni '40 si occupa anche di un nuovo fenomeno, che andava intensificandosi sempre di più, soprattutto dopo la fine della seconda guerra mondiale: l'ufologia. Dopo una breve malattia, muore il 6 giugno 1961, nella sua casa sul lago a Bollingen.


domenica 22 luglio 2012

KARMA

Karma è un termine sanscrito (traducibile grossolanamente come agire, azione) che indica presso le filosofie orientali il principio di azione/reazione che regola la vita di tutto ciò che è manifesto nell'universo, vincolando le anime al Sasāra (il ciclo di morti e rinascite). Il concetto di Karma è centrale nell'Induismo, nel Buddhismo, nel Sikhismo e nel Jainismo. In Occidente si diffuse nel corso del XIX secolo, divulgato dalla Società Teosofica, ed è al centro di molte discipline New Age. Nel Neopaganesimo, e nella Wicca in particolare, il Karma è legato alla genesi della Rede (Finché non fai del male a nessuno, fa' ciò che vuoi) e della Legge del tre. La cosiddetta "Regola d'oro" nel cristianesimo. Induismo. Il Karma riguarda sia l'attività o agire in sé sia l'insieme delle conseguenze delle azioni compiute da un individuo nelle vite precedenti. Secondo il principio del Karma le azioni del corpo, della parola e dello spirito (i pensieri) sono insieme causa e conseguenza di altre azioni: niente è dovuto al caso, ma ogni avvenimento, ogni gesto è legato insieme da una rete di interazioni di causa/effetto. Il principio del Karma è valido esclusivamente all'interno del mondo materiale (prakriti) e del ciclo di nascita e morte (Sasāra). Se si produce sofferenza o si interferisce negativamente con il Dharma o legge universale, si produce Karma negativo; se si fa del bene, si produce karma positivo. Nelle vite successive (o nella vita corrente) si dovrà pagare o si verrà ripagati per le azioni compiute precedentemente. Il Karma Yoga è uno dei modi di ottenere Moksha ovvero la liberazione. Buddismo. Il Karma (sanscrito:  pāli kamma, cinese:  pinyin: , giapponese: , tibetano: las) è un "principio universale" secondo il quale un' "azione virtuosa" (che non produce sofferenza) genera benefici nelle vite successive, mentre un'azione "non virtuosa" (che produce sofferenza) genera fastidi e disagi nelle vite successive. Il Karma, dunque, vincola tutti gli esseri senzienti al ciclo del Samsāra poiché tutto ciò che l'essere farà, si ripercuoterà nella vita futura. Quando viene compiuta un'azione non virtuosa, viene depositato nella vita stessa dei "semi" o "residui" (sans. vāsanā) ) in seguito alla produzione di karma negativo. Quando viene compiuta un'azione virtuosa invece, viene prodotto karma positivo. Questi residui allungheranno la permanenza dell'esistenza nel Samsāra. Esiste però un tipo di Karma - che, effettivamente, "non è" Karma - che non è né positivo né negativo, quello che porta alla "liberazione" (Vimukti). Ogni manifestazione degli esseri senzienti possiede una certa quantità di "semi del Karma", che finché non verranno esauriti, li costringeranno a permanere nel ciclo del Samsāra. Questi "semi" sono frutto di azioni compiute da innumerevoli vite precedenti. Essi non possono diminuire ma possono essere distrutti con il raggiungimento dell'illuminazione (Bodhi). Con l'estinzione del debito karmico, l'essere non sarà più vincolato al Karma e quindi al Samsāra e potrà raggiungere il Nirvana. Il significato e il ruolo attribuito alla dottrina del Karma varia a seconda degli insegnamenti delle differenti scuole buddhiste. L'atto nel Buddhismo, e solo in esso, si identifica con l'intenzione (cetana) allorché un gesto compiuto o un pensiero elaborato (prayatna) senza intenzione non produce Karma, spietato o umano che sia. Al contrario, la sola intenzione che non si traduca in gesto o pensiero produce karma e poiché l'intenzione neutra (avyakrta) non può logicamente esistere essa è la sola a produrre karma secondo l'insegnamento buddhista. Condizionata dalla sola esistenza (bhava), la nascita (jati) delle intenzioni non è reversibile e niente di ciò che esiste (tranne il nirvana) che sia una divinità, una pratica rituale, un rimorso, un rimpianto o la morte potrà impedire che se ne formi il frutto, che maturi e che si riversi sull'agente nelle condizioni determinate solo e solamente dall'atto medesimo. Per cui l'implacabile responsabilità personale va ricondotta sempre alle vite precedenti per una piena comprensione ed eventualmente distruzione degli atti medesimi, siano essi positivi (kusala) o negativi (akusala).

domenica 15 luglio 2012

KIERKEGAARD


Kierkegaard Sören Aabye, filosofo danese (Copenaghen 1813 – 1855). Profondamente segnato dall'educazione di un padre austero e devoto e dalla rottura del fidanzamento con Regina Olsen, medita sull'esistenza per arrivare a cambiare la propria. Kierkegaard intende la ricerca filosofica non solo come un'attività del pensiero, ma come una manifestazione di vita, per cui la sua esistenza tormentata e le sue polemiche con la Chiesa protestante si riflettono nella sua opera, che fu molto copiosa e pubblicata sotto pseudonimi diversi. Egli scrisse: Il concetto dell'ironia (1841), Il diario di un seduttore , compreso originariamente in Aut-Aut (1843), Timore e tremore (1843), La ripetizione (1843), Gli stadi sul cammino della vita (1845), di cui in italiano è tradotta solo una parte dal titolo In vino veritas , un diario dal titolo Colpevole -non colpevole , una lettera al lettore sotto lo pseudonimo di Fratel Taciturnus, nella quale viene enunciata la teoria dei tre stadi dell'esistenza (estetico, etico, religioso); Briciole di filosofia (1844), Il concetto dell'angoscia (1846), Postilla conclusiva non scientifica (1846), La malattia mortale (1849). Il titolo di una delle opere fondamentali, Aut-Aut , richiama alla posizione di Kierkegaard nei confronti della filosofia hegeliana, nell'ambito della quale bisogna respingere il concetto di conciliazione degli opposti, I 'et-et , in quanto ci sono alternative che non sono conciliabili, ma si escludono l'una con l'altra: le alternative possibili della vita non si lasciano conciliare nella continuità di un unico processo nel quale agisce tutta la realtà. La realtà non è lo Spirito assoluto nel quale gli opposti si conciliano: è l'uomo, il “me”, per il quale si presenta continuamente l'esigenza di una scelta tra due possibilità inconciliabili, per cui il realizzarsi dell'una esclude il realizzarsi dell'altra e la nullifica. Questo concetto di possibile, che Kierkegaard riconduce alle dimensioni esistenziali, e toglie al dominio della logica, è nuovo nella filosofia moderna, ed ha il suo antecedente solo nella filosofia platonica. La possibilità come categoria dell'esistenza umana è sempre possibilità che sì o possibilità che no; nella dimensione logica invece il possibile ha un senso positivo, perché è semplicemente “ il non impossibile ”. Kierkegaard ne mette in luce l'aspetto negativo, paralizzante: è sempre possibile scegliere fra due possibilità, ma tanto l'una che l'altra, comunque io scelga, possono e non possono realizzarsi. È un'alternativa fra l'essere e il nulla, e l'atto della scelta ha sempre valore esistenziale, in quanto solo dopo la scelta si saprà se la possibilità è reale o no. Prima non c'è alcuna garanzia, il nulla è la minaccia costante sull'esistenza umana. Il sentimento che scaturisce dalla consapevolezza del carattere nullificante della scelta è tipico dell'uomo, e caratterizza i suoi rapporti col mondo esterno: è il sentimento dell'angoscia. Uno degli elementi originali di Kierkegaard consiste nell'avere posto in luce l'uomo come singolo essere, solo con se stesso. Malgrado polemizzi con Hegel, Kierkegaard non si pone al di fuori dell'hegelismo, perché si avvale di concetti hegeliani, in quanto si esprime in termini di “ assoluto ”, “ totalità ”, “ finito-infinito ”, “ essere-nulla ”, anche se essi vengono utilizzati in una prospettiva antihegeliana. L'opera principale di Kierkegaard: “Aut-Aut” ha come oggetto il passaggio dallo stadio estetico della vita allo stadio etico. Colui che vive in una dimensione estetica si affida all'immaginazione senza progettare la sua esistenza oltre l'attimo immediato: esempio di questo stile di vita è Don Giovanni, di cui Kierkegaard parla a proposito di Mozart, o Giovanni, il protagonista del “Diario di un seduttore”. Il seduttore sembra realizzare una sorta di destino eroico, anche la sua fine è negativa, poiché questa fine è l'ultimo atto di un'esistenza vissuta in una dimensione estetica assoluta, in cui non c'è nulla di banale. L'analisi di opere di teatro in cui spiccano figure femminili (Margherita nel Faust, Elvira nel Don Giovanni mette in risalto l'amore come centro dell'esistenza estetizzante, la quale conduce necessariamente all'infelicità poiché ha in sé i germi di una crisi che la destina al naufragio. Non occorre porsi su un piano etico o religioso per condannare questo tipo di esistenza: la condanna è interna, perché la vita senza storia, senza ripetizione, senza impegno non può condurre che alla noia e al disprezzo della vita: alla disperazione. L'estetismo è distruzione della personalità, e non è libertà ma schiavitù perché pone il suo interesse in ciò che non dipende dall'esteta, cioè nel piacere, che gli viene comunque da altri. La disperazione è l'ansia di una vita diversa, un'altra alternativa possibile. Non bisogna sottrarsi alla disperazione, ma accettarla, viverla fino in fondo, sceglierla. Se l'esteta avrà il coraggio di compiere una scelta alternativa, perverrà alla vita etica. Anche in essa l'amore è un fatto centrale, ma è realizzato non nell'attimo, ma nella continuità, nella ripetizione, all'interno dell'istituzione del matrimonio. Caratteristica della vita etica è la scelta che l'uomo fa di sé stesso, scelta assoluta, di tutto sé stesso, in quanto chi accetta l'eticità della vita imprime un indirizzo stabile e costante alla propria esistenza, e sta a lui, non al caso, fare progetti e realizzarli. Egli sceglie la propria personalità; sostituendola al capriccio, e si pone in rapporto con gli altri, si riallaccia all'umanità. Scegliendosi, l'uomo si dà una storia che non è tutta positiva, ha pure momenti crudeli, errori, di cui egli si pente senza poterli annullare. In questo concetto del pentimento comincia a rivelarsi l'altra scelta, quella che è al di là dell'etica: lo stadio religioso, argomento di “ Timore e tremore ”. Kierkegaard, analizzando il sacrificio di Abramo, che è conforme al volere di Dio ma contrario alle leggi dell'etica, prospetta il passaggio dallo stadio etico a quello della fede, in cui non c'è garanzia umana a convalidare la scelta, e in cui la condizione umana si configura nella solitudine più deserta della coscienza, che è in rapporto unicamente con Dio. Nulla garantisce questo passaggio, che non è un passaggio ma un salto, e non si fonda sulla ragione, come la scelta dell'etica, ma sulla fede. L'angoscia, la disperazione, il sentimento dell'assurdo, caratterizzano questo salto nel buio: l'uomo che sceglie la fede fa una scommessa sull'assurdo ed è assolutamente solo davanti a Dio.


domenica 8 luglio 2012

ESISTENZIALISMO

La domanda centrale delle problematiche esistenzialiste è: “che cos’è l’essere?”. Essa può essere posta in altri modi: cos’è che determina la nostra esistenza? Perché c’è l’uomo invece del nulla? L’essere è un concetto unico da cui derivano tutte le sue manifestazioni (l’uomo, le cose, ecc.)? Heidegger, che per primo si pose compiutamente la domanda, intuì che diversamente da quanto affermato in tutta la storia della metafisica l’essere non va confuso con l’ente: in altre parole, l’essere non è Dio o le Idee platoniche, concetti ontologici, manifestazioni fisiche più che metafisiche. L’essere è un concetto e non può essere oggettivato. Il filosofo Gabriel Marcel pose l’accento sul fatto che l’esistenza non è un problema, bensì un mistero. Un problema è infatti un qualcosa che si pone davanti a noi come un ostacolo e di cui noi possiamo perlomeno delimitarne la portata e quindi comprenderlo in via di massima. L’esistenza non si pone di fronte a noi, è anche in noi stessi, ci penetra, e dunque noi siamo sia soggetti che oggetti della domanda “che cos’è l’essere?”. Heidegger spiegava questo concetto in questo modo: di ogni cosa noi possiamo dire cos’è categorizzandola, possiamo farla rientrare in un insieme (il cane è parte dell’insieme ‘animali’, per intenderci). Ma il concetto di essere non può venire categorizzato, perché esso stesso è l’insieme più ampio di tutti, di cui tutti gli altri insiemi fanno parte. Il fatto quindi che l’essere è sia in noi che fuori di noi non ci permette di dare mai una risposta definitiva al problema (o, meglio, al mistero). Questa questione è meglio marcata nelle riflessioni di Sartre, il quale alla domanda dà tre risposte: la prima, la più evidente, è che l’essere sia costituito dall’insieme di tutti gli esseri - cose e persone - presenti nel contesto spazio-temporale in cui viviamo; la seconda è che l’essere sia quello che Sartre chiama il per-sè, cioè la nostra coscienza, il nostro io che si pone come altro rispetto al resto del mondo, è soggetto e non oggetto; infine può essere in-sè, ossia l’essere nelle cose e nei fenomeni che ci appaiono, negli oggetti che ci circondano, a cui però diamo un senso noi, e quindi in qualche modo derivano da noi. Nessuna di queste tre è una risposta completa: l’essere, per Sartre, è come se si manifestasse in parte in ogni cosa ma si cela sempre nella sua compiutezza. Heidegger e Jaspers indicarono tuttavia una semi-risposta al quesito. Il fatto che noi ci poniamo la domanda “che cos’è l’essere?”, il fatto che andiamo alla ricerca di una risposta e indaghiamo la realtà nel cercarla è già di per sè una risposta. Si può dire, quindi, che si è, si esiste nel momento in cui ci si pone la domanda “perché esisto?”, “che cosa significa esistere?”. In questo modo, infatti, noi esistiamo perché il significato etimologico di esistere è ex-sistere, cioè in latino “essere fuori da”: in qualche modo cerchiamo di uscire fuori da noi stessi e guardare l’essere come qualcosa di altro, che non ci appartiene, lo analizziamo “fuori da noi” e questo è già un primo passo.

lunedì 2 luglio 2012

DRUIDI

Le notizie che abbiamo sui druidi differiscono a seconda degli autori e delle epoche, ma più che contraddirsi esse si completano. I druidi erano essenzialmente dei sacerdoti che presiedevano alle cerimonie del culto e soprattutto celebravano i sacrifici. Scandivano il tempo secondo atavici rituali. Tutta la concezione del tempo, per i Celti, era regolata sulle fasi della luna, patrona della fecondità della terra e delle donne, basata su quattro grandi eventi stagionali. Tutte le conoscenze e i segreti erano appannaggio dei druidi. E' possibile che all'inizio, essi formassero un'unica classe ma poi la loro organizzazione si sviluppò, divenne più complessa e perciò si articolò in classi diverse. Una di queste riuniva in Gallia i Vates, specializzati in sociologia, in storia e in scienze naturali, per finire, vi furono ai margini della collettività druidica, i Bardes, sorta di poeti-cantastorie ufficiali della società celtica e nello stesso tempo, cronisti. Infatti, in un'epoca in cui non esistevano i giornali, gli avvenimenti erano divulgati da interminabili cantilene che il popolo ascoltava con passione. Nella gerarchia irlandese, invece, a fianco dei druidi, compaiono i Filid, che svolgevano in qualche modo le funzioni scientifiche e poetiche ed erano quanto a dignità uguali ai druidi, nonché disposti secondo una rigida gerarchia. Non a caso la parola 'druido' significa 'molto saggio'. Gli antichi avevano sentito parlare di loro fin dal IV sec. a.C. e avevano un profondo rispetto per le loro conoscenze e la loro effettiva saggezza. Tuttavia, non si ha alcun testo che riassuma l'insegnamento dei druidi, ma sappiamo che, senza essere esoterico o segreto, esso era riservato agli allievi delle loro scuole, specie relative a seminari agresti, lontani dall'agitazione del mondo e frequentati soprattutto dai figli dell'aristocrazia. Com'è ben noto, la quercia per i druidi era particolarmente sacra, poiché vi si raccoglieva il vischio. I boschi, più ancora dei laghi e dei fiumi, erano luoghi di presenza divina. Il bosco era a tal punto parte integrante della cultura dei Celti che per loro non era possibile dissociarlo dagli sforzi per abbattere il nemico. Per i Romani abbattere i santuari forestali dei Celti era importante quanto sconfiggerne le truppe sul campo di battaglia. La visione della vita che i Celti acquisivano per mezzo dell'insegnamento druidico, l'assenza di paura per la morte e dell'aldilà, non si spiegherebbero senza una credenza radicata nell'immortalità dell'anima e nella possibilità per l'uomo di conoscere le forme di esistenza più diverse. Infatti il loro amore per la vita in tutte le sue manifestazioni, la loro apertura verso tutte le esperienze, rivela in loro il senso dell'unità del cosmo, più di duemila anni prima che la scienza moderna, con tutte le sue tecniche, avesse solo cominciato a supporla. I druidi rappresentavano il cardine dell'unità dell'impero spirituale celtico, i promulgatori dell'armonia e della sapienza, i signori degli elementi (acqua, fuoco, vento, terra). Fu proprio per questo che i conquistatori romani arrivarono a sopprimerne la casta e proibire le loro riunioni e il culto, per colpire al cuore la società celtica.                                                                                                                          

sabato 16 giugno 2012

F. NIETZSCHE: AL DI LA' DEL BENE E DEL MALE


Sono sempre più indotto a credere che il filosofo, come uomo necessario del domani e del dopodomani, si sia trovato in ogni tempo in contraddizione con il suo oggi: il suo nemico fu ogni volta l’ideale dell’oggi. Sinora tutti questi eccezionali fautori dell’uomo, ai quali si dà il nome di filosofi e che raramente si sentirono amici della verità, ma piuttosto sgradevoli giullari e pericolosi punti interrogativi – hanno trovato il loro compito, il loro duro, non voluto, inevitabile compito, e infine la grandezza del loro compito, nel costituire essi stessi la cattiva coscienza del loro tempo. Vivisezionando col coltello proprio il cuore delle virtù del tempo, tradirono quel che era il loro strano segreto: conoscere una nuova grandezza dell’uomo, una nuova strada non ancora mai battuta per il suo innalzamento. Essi svelarono ogni volta quanta ipocrisia e infingardaggine, quanto lasciarsi andare e lasciarsi cadere, quanta menzogna si nascondesse sotto il tipo maggiormente venerato della moralità loro contemporanea, quanta virtù fosse sopravvissuta a se stessa; ogni volta essi dissero: “Dobbiamo arrivare e partire da quel luogo, che oggi è per voi meno di ogni altro familiare”. Dinanzi a un mondo delle “idee moderne”, che vorrebbe confinare ognuno in un angolo e in una “specializzazione”, un filosofo, ove mai oggi un filosofo potesse esistere, sarebbe costretto a porre la grandezza dell’uomo, l’idea di “grandezza” proprio nella sua vastità e multiformità, nel suo essere intero in molte cose: determinerebbe persino il valore e il rango, a seconda di quali e quante cose uno sia in grado di sopportare e di assumere sopra di sé, a seconda del limite fino al quale uno può tendere la sua responsabilità. Oggigiorno il gusto e la virtù dell’epoca affievoliscono e assottigliano il volere, nulla è tanto in armonia con i tempi quanto l’estenuazione della volontà. Oggi è tutto l’opposto qui in Europa, dove soltanto l’animale da armento perviene agli onori e onori distribuisce, dove l’“uguaglianza dei diritti” si potrebbe anche troppo facilmente trasformare nell’uguaglianza dei torti: intendo dire in una comune guerriglia contro tutto quanto di raro, d’inconsueto, di privilegiato appartiene all’uomo superiore, all’anima superiore, alla superiore responsabilità, alla pienezza creativa della potenza e all’arte del signoreggiare – oggigiorno si addice alla nozione di “grandezza” l’essere nobili, il voler essere per se stessi, il poter essere diversi, il restarsene isolati e la necessità di vivere a modo proprio; il filosofo divinerà qualcosa del suo proprio ideale, quando stabilirà “Più grande tra tutti sarà colui che può essere il più solitario, il più nascosto, il più diverso, l’uomo al di là del bene e del male, il signore delle proprie virtù, ricco quant’altri mai di volontà; questo appunto deve chiamarsi grandezza: poter essere tanto multiforme quanto intero, tanto esteso quanto colmo”. E ancora una volta domandiamo: è oggi possibile la grandezza?


domenica 10 giugno 2012

SURREALISMO

Il termine “surrealismo” viene usato per la prima volta nel 1917 da Guillaume Apollinaire per definire un suo testo teatrale, che sarà rappresentato al Théatre René-Maubel di Parigi, da titolo ” Le mammelle di Tiresia”, e definito “dramma surrealista” o “drame surréaliste”, e da qui la parola ebbe successo e vennè ripresa più volte. In questo termine cominciano a confluire i concetti nati a metà del XIX sec. di Supernaturalisme, con cui era definito il pensiero dello scrittore parigino Gérard de Nerval, o il Surnaturalisme di C. Baudelaire. Il 9 novembre 1918 Apollinaire muore a causa dell’epidemia di febbre spagnola, e ciò che aveva cominciato fu continuato da Louis Aragon, André Breton e Philippe Soupault i quali, tra il 1919 e il 1924, diedero vita alla rivista d’avanguardia “Littérature”. A questa rivista collaborarono diversi intellettuali, poeti e scrittori, tra cui ricordiamo, Man Ray, Francis Picabia, Marcel Duchamp, Max Ernest, ecc… . I loro incontri avevano luogo presso Paul Eluard a Saint-Brice, nella foresta di Saint-Leu, oppure a casa di Breton a Parigi, o si organizzavano gite di alcuni giorni, in cui si cercavano posti speciali, pieni di magia e mistero. Il 13° numero della rivista era completamente dedicato al Dadaismo, e i redattori della rivista di questo movimento condividevano la sfiducia nel razionalismo e la polemica contro le convenzioni formali, temi che saranno anche condivisi dalle idee Surrealiste. La differenza fra le due correnti stà nel fatto che i dadaisti si limitano ad un atteggiamento distruttore e nichilista, mentre i surrealisti adottano un ateggiamento costruttivo e propositivo e cercano, sin dall’inizio, di elaborare una nuova estetica ed una nuova visione del mondo. Nel 1922, Breton assume, da solo, la direzione della rivista e si distacca dai dadaisti e da Tristan Tzara, ed in questo stesso anno, assieme a Soupault, compone “Campi magnetici “, che fu scritto “sottto la dettatura dell’inconscio”. Questo metodo impersonale fu riutilizzato, con creazioni collettive, nei mesi a seguire, e si ricordano principalmente Robert Desnos, René Crevel e Benjamin Péret; dove uno di loro, in stato di “trance”, pronunciò oscure parole, simile agli Oracoli dell’antica Grecia, mentre gli altri partecipanti gli ponevano domande, così ne uscì fuori un dialogo che venne riportato sulla rivista come forma poetica ispirata. Le ricerche di questi artisti si accompagnano a quelle compiute da Sigmund Freud, il quale nel 1900 pubblica il saggio: “l’interpretazione dei sogni”, ma c’è una differenza sostanziale tra i surrealisti ed il medico austriaco, quest’ultimo era interessato al sogno perchè il suo scopo era quello di capire e curare la nevrosi dei pazienti, mentre per gli altri era una fonte d’ispirazione artistica ed il loro scopo è quello di suscitare, in chi guarda. sentimenti contrastanti di stupore, meraviglia e disagio, avvolte anche disprezzo, visto lo spirito anticonformista, provocatorio, irriguardoso e rivoluzionario di questi artisti. Autunno del 1924, Breton pubblica il Manifesto del Surrealismo, inizialmente nato come prefazione per una raccolta di poesie intitolato: Poisson soluble. Breton del surrealismo dice: “Automatismo psichico puro per mezzo del quale ci si propone di esprimere, sia verbalmente, sia per iscritto, sia in altre maniere, il funzionamento reale del pensiero. Dettato del pensiero, in assenza di tutti i controlli esercitati dalla ragione, al di là di ogni preoccupazione estetica o morale”. Al gruppo aderiscono scrittori, intellettuali e artisti, tra cui Max Ernst, Ives Tanguy, André Masson e Joan Mirò. Nel 1924 il francese Ivan Goll fonda una rivista chiamata “Surréalisme”, pubblicata in un solo numero e causa di lite tra Goll e Breton ,discussioni che segneranno la storia del movimento. I motivi della lite erano principalmente due: 1. Breton considera il termine Surrealismo una sua proprietà perchè lui il creatore del nome e Goll gli contesta questo monopolio; 2. Goll ritiene che anche la ragione sia importante nella creazione artistica, perchè fonde e coordina le attività consce e inconsce. Il 13 novembre 1925, data d’inaugurazione della prima mostra surrealista nella gallerria Pierre di Parigi e curata da Pierre Loeb, nello stesso anno prende vita un Ufficio di ricerche surrealiste, collocato al numero 15 di rue Grenelle a Parigi, che si occupava delle pubblicazioni della rivista “La Révolution surréaliste”, diretta da Benjamin Péret e da Pierre Naville e nata come risposta al periodico di Goll e organo ufficiale del movimento fino al 1929. Il 26 marzo 1926, viene aperta la Galerie Surréaliste in via Jacques Callot, con una mostra composta da sessanta opere d’arte primitiva, provenienti dall’Oceania, e da ventiquattro opere di Man Ray; due anni dopo Breton pubblica il saggio-manifesto “Il surrealismo e la pittura”, il quale conteneva indicazioni tecniche e pratiche sui metodi migliori da usare per tradurre in immagini i concetti surrealisti. L’idea base del Surrealismo, comune ai letterati e ai pittori, è il procedimento inconscio della “scrittura automatica”, questo metodo consiste nello scrivere, in modo veloce e quasi in uno stato di trance, ciò che normalmente la nostra ragione o i nostri freni inibitori ci vieterebbero di scrivere, inoltre questo tipo di scrittura attua una ricerca di coordinazioni illogiche. I surrealisti adottano, così, un proecedimento di creazione poetica collettiva che chiamano Cadavre exquis, e consisetva nel comporre una frase, per i letterati, o un disegno, per gli artisti, assieme ad altre persone, senza che nessuna di queste conoscesse ciò che le altre persone avevano fatto. Il nome di questo procedimento, inventato su suggerimento di André Breton, si riferisce alla prima frase che ne uscì fuori nel 1925: ” Il cadavere squisito berrà il vino novello”, ( Le cadavre exquis boira le vin nouveau). I pittori ed i letterati usano lo stesso metodo, ma uno con la pittura e l’altro con la scrittura: la prima persona disegna la parte superiore di un foglio, lo piega e lascia una piccola striscia disegnata , in questo modo la persona che c’è dopo sà da dove riprendere il disegno, e così via. Un esempio è il Cadavere squisito eseguito nel 1935 da Oscar Domìnguez, Remedios Varo ed Esteban Francés. Infine il primo propietario di quest’opera è il pittore Marcel Jean, anche lui autore, assieme agli altri tre pittori, di un Cadavere squisito del 1935 ed oggi conservato al Museum of Modern Art di New York.

giovedì 31 maggio 2012

KANT: CRITICA DELLA RAGION PRATICA


Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me. Queste due cose io non ho bisogno di cercarle e semplicemente supporle come se fossero avvolte nell’oscurità, o fossero nel trascendente fuori del mio orizzonte; io le vedo davanti a me e le connetto immediatamente con la coscienza della mia esistenza. La prima comincia dal posto che io occupo nel mondo sensibile esterno, ed estende la connessione in cui mi trovo a una grandezza interminabile, con mondi e mondi, e sistemi di sistemi; e poi ancora ai tempi illimitati del loro movimento periodico, del loro principio e della loro durata. La seconda comincia dal mio io indivisibile, dalla mia personalità, e mi rappresenta in un mondo che ha la vera infinitezza, ma che solo l’intelletto può penetrare, e con cui (ma perciò anche in pari tempo con tutti quei mondi visibili) io mi riconosco in una connessione non, come là, semplicemente accidentale, ma universale e necessaria. Il primo spettacolo di una quantità innumerevole di mondi annulla affatto la mia importanza di creatura animale che deve restituire al pianeta (un semplice punto nell’Universo) la materia della quale si formò, dopo essere stata provvista per breve tempo (e non si sa come) della forza vitale. Il secondo, invece, eleva infinitamente il mio valore, come [valore] di una intelligenza, mediante la mia personalità in cui la legge morale mi manifesta una vita indipendente dall’animalità e anche dall’intero mondo sensibile, almeno per quanto si può riferire dalla determinazione conforme ai fini della mia esistenza mediante questa legge: la quale determinazione non è ristretta alle condizioni e ai limiti di questa vita, ma si estende all’infinito.




martedì 22 maggio 2012

DE CONSOLATIONE PHILOSOPHIAE

Nel De consolatione philosophiae  Boezio cercava nella filosofia una via di consolazione alle proprie disgrazie: in essa, egli immagina di ricevere, durante la prigionia, la visita di una donna che si rivela essere la Filosofia stessa, venuta a consolarlo del suo triste stato e a fornirgliene una spiegazione teleologica. La Filosofia inizia col ricordare a Boezio che ciò che egli sta vivendo lo vive proprio in quanto filosofo: è, infatti, tipica dei veri discepoli della filosofia la tendenza a dispiacere ai perversi. Ciò è dimostrato anche dal fatto che situazioni più o meno analoghe sono state vissute da uomini altrettanto illustri e tra questi la Filosofia ricorda Socrate e lo stesso Seneca, due grandi martiri della filosofia. Proprio in virtù di quanto asserito dalla Filosofia, Boezio si chiede come sia possibile che il mondo premi gli ingiusti mentre la Fortuna si accanisca contro un uomo come lui che ha sempre difeso i diritti dei deboli. A questa angosciata domanda, che chiude il libro I, la Filosofia risponde dicendo che Boezio non deve temere, perché non alla fortuna è affidato il mondo, ma alla divina ragione. Del resto (e ciò è l'argomento del II libro), la felicità non è da ricercarsi nei beni materiali: questi ultimi, infatti, sono tali che per procurarseli l'uomo deve inevitabilmente ricorrere a soluzioni aberranti, stravolgendo il valore delle cose e finendo, così, per uccidere proprio ciò in cui crede. Infatti, l'uomo che vuole superare gli altri in onori, dovrà necessariamente disonorarsi umiliandosi servilmente per ottenere gli onori cui aspira; allo stesso modo, chi cerca la ricchezza dovrà sottrarla a chi la possiede; e ancora, se si vuole una vita all'insegna dei piaceri, si finisce col suscitare ripugnanza. Eppure, la presenza di beni imperfetti implica automaticamente l'idea della perfezione cui i beni imperfetti partecipano. Dante stesso - che nel Convito chiama Boezio suo consolatore e dottore - si ricorderà di queste riflessioni boeziane sulla caducità dei beni terreni, quando nel Paradiso (X, 124-129) allude a Boezio stesso, che l’ha iniziato alla filosofia. Ora, i beni materiali di per sé non sono un male – come già diceva Plotino -, in quanto creati da Dio, ma tali diventano se ci distolgono dai veri beni, quelli di natura spirituale: finchè restiamo all’infimo livello della materialità, vediamo i beni materiali come i supremi; ma non appena ci innalziamo a quelli spirituali, i beni materiali ci appaiono insignificanti e minuti, proprio come quando – per riprendere l’immagine che userà Petrarca nella sua ascesa al monte Ventoso – saliamo in cima ad un monte vediamo piccolissimo ciò che sta sotto e che, prima di salire, ci pareva enorme. La Filosofia conclude quindi che la felicità è Dio stesso, inteso come sommo bene. Fin qui, i primi tre libri; nel libro IV, però, viene sollevata l'inevitabile obiezione: se il mondo è governato da Dio e se Dio è il sommo bene, come mai esiste il male? Si Deus est, unde malum? Così si interroga lo stesso Agostino, e la tematica verrà lasciata in eredità ai pensatori successivi, fino ai giorni nostri (ma, del resto, si Deus non est, unde bonum?). A questa legittima domanda, la Filosofia risponde che ciò che governa tutto è la Provvidenza, ossia la volontà divina stessa, la quale però si serve del Fato, cioè la contingenza relativa alle cose mutevoli. Gli uomini, che non conoscono questo stato di cose, non operano la necessaria distinzione tra fato e provvidenza, sì che il verificarsi del male nel mondo appare ad essi incomprensibile, tanto più quando a farne le spese sono i virtuosi (pensiamo a Socrate e a Seneca). Ma una provvidenza che governa il mondo non annulla la libertà dell'uomo? Boezio utilizza il V libro per dare risposta a questo arduo problema: ciò che governa il mondo è provvidenza, non previdenza; le azioni passate, presenti e future sono in Dio tutte presenti: "se tu volessi valutare esattamente la previsione con cui egli riconosce tutte le cose, dovresti giustamente ritenere che si tratti non di prescienza di cose proiettate nel futuro, ma di conoscenza di un presente che non viene mai meno. Onde si chiama, non previdenza, ma provvidenza" (De consolatione philosophiae).


domenica 13 maggio 2012

DADAISMO

Il Dadaismo è un movimento artistico che nasce in Svizzera nel XX secolo e più esattamente, durante il periodo della prima guerra mondiale (1915-1918). A Zurigo infatti un gruppo di rifugiati intellettuali formato da Richard Huelsenbeck, Hans Richter, Hans Arp, Tristan Tzara, Marcel Janco, ai quali si uniranno Marcel Duchamp e Max Ernst, discutono spesso al Cabaret Voltaire di un'arte nuova che deve stupire con manifestazioni inusuali e provocatorie, così nasce il movimento dada. La parola Dada, che identifica il movimento, non significa nulla e già in ciò vi è una prima caratteristica del movimento: quella di rifiutare ogni atteggiamento razionalistico. Il rifiuto della razionalità è ovviamente provocatorio e viene usato per abbattere le convenzioni borghesi intorno all'arte. Pur di rinnegare la razionalità i dadaisti non rifiutano alcun atteggiamento dissacratorio, e tutti i mezzi sono idonei per giungere al loro fine ultimo: distruggere l'arte. Distruzione assolutamente necessaria per poter ripartire con una nuova arte non più sul piedistallo dei valori borghesi ma coincidente con la vita stessa e non separata da essa. Tipico prodotto dada è il ready-made (già fatti o già pronti), un prodotto ordinario tolto dall'oggetto originario e messo in mostra come opera d'arte. Quindi un'opera d'arte può essere qualsiasi cosa, quindi come conseguenza nulla è arte. L'opera dell'artista non consiste quindi nella sua abilità manuale, ma nelle idee che riesce a proporre. Infatti, il valore dei «ready-made» è solo nell'idea. Abolendo qualsiasi valore alla manualità dell'artista, l'artista, non è più colui che sa fare delle cose con le proprie mani, ma è colui che sa proporre nuovi significati alle cose. Dopo il suo esordio a Zurigo, il Dadaismo si diffonde ben presto in Europa, soprattutto in Germania e a Parigi, arrivando a lambire anche gli Stati Uniti, ma la vita del movimento è abbastanza breve. Del resto non poteva essere diversamente. La funzione principale del dadaismo era quello di distruggere una concezione oramai vecchia e desueta dell'arte. E questa è una funzione che svolge in maniera egregia, ma per poter divenire proposta necessita di una trasformazione, e ciò avvenne tra il 1922 e il 1924, quando il dadaismo scomparve e nasce il surrealismo.