Nel
De consolatione philosophiae Boezio
cercava nella filosofia una via di consolazione alle proprie disgrazie: in
essa, egli immagina di ricevere, durante la prigionia, la visita di una donna
che si rivela essere la Filosofia stessa, venuta a consolarlo del suo triste
stato e a fornirgliene una spiegazione teleologica. La Filosofia inizia col
ricordare a Boezio che ciò che egli sta vivendo lo vive proprio in quanto
filosofo: è, infatti, tipica dei veri discepoli della filosofia la tendenza a
dispiacere ai perversi. Ciò è dimostrato anche dal fatto che situazioni più o
meno analoghe sono state vissute da uomini altrettanto illustri e tra questi la
Filosofia ricorda Socrate e lo stesso Seneca, due grandi martiri della
filosofia. Proprio in virtù di quanto asserito dalla Filosofia, Boezio si
chiede come sia possibile che il mondo premi gli ingiusti mentre la Fortuna
si accanisca contro un uomo come lui che ha sempre difeso i diritti dei deboli.
A questa angosciata domanda, che chiude il libro I, la Filosofia risponde
dicendo che Boezio non deve temere, perché non alla fortuna è affidato il
mondo, ma alla divina ragione. Del resto (e ciò è l'argomento del II libro), la
felicità non è da ricercarsi nei beni materiali: questi ultimi, infatti, sono
tali che per procurarseli l'uomo deve inevitabilmente ricorrere a soluzioni
aberranti, stravolgendo il valore delle cose e finendo, così, per uccidere
proprio ciò in cui crede. Infatti, l'uomo che vuole superare gli altri in
onori, dovrà necessariamente disonorarsi umiliandosi servilmente per ottenere
gli onori cui aspira; allo stesso modo, chi cerca la ricchezza dovrà sottrarla
a chi la possiede; e ancora, se si vuole una vita all'insegna dei piaceri, si
finisce col suscitare ripugnanza. Eppure, la presenza di beni imperfetti
implica automaticamente l'idea della perfezione cui i beni imperfetti
partecipano. Dante stesso - che nel Convito chiama Boezio suo
consolatore e dottore - si ricorderà di queste riflessioni boeziane sulla
caducità dei beni terreni, quando nel Paradiso (X, 124-129) allude a
Boezio stesso, che l’ha iniziato alla filosofia. Ora, i beni materiali di per
sé non sono un male – come già diceva Plotino -, in quanto creati da Dio, ma
tali diventano se ci distolgono dai veri beni, quelli di natura spirituale:
finchè restiamo all’infimo livello della materialità, vediamo i beni materiali
come i supremi; ma non appena ci innalziamo a quelli spirituali, i beni
materiali ci appaiono insignificanti e minuti, proprio come quando – per
riprendere l’immagine che userà Petrarca nella sua ascesa al monte Ventoso –
saliamo in cima ad un monte vediamo piccolissimo ciò che sta sotto e che, prima
di salire, ci pareva enorme. La Filosofia conclude quindi che la felicità è Dio
stesso, inteso come sommo bene. Fin qui, i primi tre libri; nel libro IV, però,
viene sollevata l'inevitabile obiezione: se il mondo è governato da Dio e se
Dio è il sommo bene, come mai esiste il male? Si Deus est, unde malum?
Così si interroga lo stesso Agostino, e la tematica verrà lasciata in eredità
ai pensatori successivi, fino ai giorni nostri (ma, del resto, si Deus non
est, unde bonum?). A questa legittima domanda, la Filosofia risponde che
ciò che governa tutto è la Provvidenza, ossia la volontà divina stessa,
la quale però si serve del Fato, cioè la contingenza relativa alle cose
mutevoli. Gli uomini, che non conoscono questo stato di cose, non operano la
necessaria distinzione tra fato e provvidenza, sì che il verificarsi del male
nel mondo appare ad essi incomprensibile, tanto più quando a farne le spese
sono i virtuosi (pensiamo a Socrate e a Seneca). Ma una provvidenza che governa
il mondo non annulla la libertà dell'uomo? Boezio utilizza il V libro per dare
risposta a questo arduo problema: ciò che governa il mondo è provvidenza,
non previdenza; le azioni passate, presenti e future sono in Dio tutte
presenti: "se tu volessi valutare esattamente la previsione con cui
egli riconosce tutte le cose, dovresti giustamente ritenere che si tratti non
di prescienza di cose proiettate nel futuro, ma di conoscenza di un presente
che non viene mai meno. Onde si chiama, non previdenza, ma provvidenza"
(De consolatione philosophiae).
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