domenica 29 luglio 2012

CARL GUSTAV JUNG


Carl Gustav Jung nasce a Kesswil, sul lago di Costanza (Svizzera) il 26 luglio 1875. Figlio di un pastore protestante, consegue la laurea in Medicina e nel 1900 entra a lavorare nell' ospedale psichiatrico di Zurigo. Attraverso gli studi di medicina si avvicina alla psichiatria. Per alcuni anni è uno degli allievi prediletti di Sigmund Freud, che lo fa avvicinare alla psicoanalisi. Jung diviene forte sostenitore delle teorie del maestro, tuttavia appaiono presto delle divergenze tra i due, profondamente diversi nel carattere. Nel 1912 - con la pubblicazione del suo volume "Trasformazioni e simboli della libido" - il rapporto tra Jung e Freud si interrompe. Lo svizzero inizia a elaborare una nuova teoria, detta poi psicologia analitica, che rispetto alle teorie freudiane, si caratterizza per una maggiore apertura verso gli elementi non razionali della psiche. Jung è persona di grande cultura: studia a fondo i temi mitologici, letterari e religiosi di tutti i tempi e di tutti i paesi. Viaggia molto: a partire dal 1920 visita Africa, India e Nord America. Nel 1921 pubblica il saggio "Tipi psicologici". Durante il suo peregrinare entra in contatto con numerose popolazioni di cui studia miti, rituali, usi e costumi. Oltre all'inconscio personale del singolo individuo, Jung è convinto esista anche un inconscio collettivo comune agli uomini di tutti i tempi. I contenuti di questo inconscio collettivo, nel corso dei secoli si sarebbero espressi in immagini, miti e credenze religiose che egli ritrova, in modo identico, nelle culture di popoli di epoche e luoghi diversi. Nelle sue teorie gli archetipi - che chiama "immagini originarie" - rivestono un ruolo fondamentale. Gli archetipi sono contenuti inconsci che fungono da produttori e ordinatori di rappresentazioni: una sorta di modello presente in modo innato nella psiche dell'essere umano. Nel 1930 viene nominato presidente onorario della "Società tedesca di psicoterapia"; dopo l' avvento del nazismo (1933) non dà le dimissioni, collabora invece con Hermann Göring, fino al 1940, alla riorganizzazione della Società. Ai viaggi e all'elaborazione della psicologia analitica, Jung affianca una intensa attività terapeutica, che svolge nei pressi di Zurigo. Qui fonda un istituto che porta il suo nome (Carl Gustav Jung Institut): fa costruire una torre, luogo simbolo di rifugio e di meditazione. Insegna teoria e metodi di quella che, per distinguerla dalla psicoanalisi freudiana, è ormai definita "psicologia analitica". Nel 1944 pubblica "Psicologia e alchimia", ma nello stesso anno subisce un incidente, una frattura e un successivo infarto. In coma, vive un'esperienza di pre-morte che descriverà poi nel testo autobiografico "Ricordi, sogni e riflessioni". Nel 1952 pubblica importanti scritti sulla "teoria della Sincronicità". A partire dagli anni '40 si occupa anche di un nuovo fenomeno, che andava intensificandosi sempre di più, soprattutto dopo la fine della seconda guerra mondiale: l'ufologia. Dopo una breve malattia, muore il 6 giugno 1961, nella sua casa sul lago a Bollingen.


domenica 22 luglio 2012

KARMA

Karma è un termine sanscrito (traducibile grossolanamente come agire, azione) che indica presso le filosofie orientali il principio di azione/reazione che regola la vita di tutto ciò che è manifesto nell'universo, vincolando le anime al Sasāra (il ciclo di morti e rinascite). Il concetto di Karma è centrale nell'Induismo, nel Buddhismo, nel Sikhismo e nel Jainismo. In Occidente si diffuse nel corso del XIX secolo, divulgato dalla Società Teosofica, ed è al centro di molte discipline New Age. Nel Neopaganesimo, e nella Wicca in particolare, il Karma è legato alla genesi della Rede (Finché non fai del male a nessuno, fa' ciò che vuoi) e della Legge del tre. La cosiddetta "Regola d'oro" nel cristianesimo. Induismo. Il Karma riguarda sia l'attività o agire in sé sia l'insieme delle conseguenze delle azioni compiute da un individuo nelle vite precedenti. Secondo il principio del Karma le azioni del corpo, della parola e dello spirito (i pensieri) sono insieme causa e conseguenza di altre azioni: niente è dovuto al caso, ma ogni avvenimento, ogni gesto è legato insieme da una rete di interazioni di causa/effetto. Il principio del Karma è valido esclusivamente all'interno del mondo materiale (prakriti) e del ciclo di nascita e morte (Sasāra). Se si produce sofferenza o si interferisce negativamente con il Dharma o legge universale, si produce Karma negativo; se si fa del bene, si produce karma positivo. Nelle vite successive (o nella vita corrente) si dovrà pagare o si verrà ripagati per le azioni compiute precedentemente. Il Karma Yoga è uno dei modi di ottenere Moksha ovvero la liberazione. Buddismo. Il Karma (sanscrito:  pāli kamma, cinese:  pinyin: , giapponese: , tibetano: las) è un "principio universale" secondo il quale un' "azione virtuosa" (che non produce sofferenza) genera benefici nelle vite successive, mentre un'azione "non virtuosa" (che produce sofferenza) genera fastidi e disagi nelle vite successive. Il Karma, dunque, vincola tutti gli esseri senzienti al ciclo del Samsāra poiché tutto ciò che l'essere farà, si ripercuoterà nella vita futura. Quando viene compiuta un'azione non virtuosa, viene depositato nella vita stessa dei "semi" o "residui" (sans. vāsanā) ) in seguito alla produzione di karma negativo. Quando viene compiuta un'azione virtuosa invece, viene prodotto karma positivo. Questi residui allungheranno la permanenza dell'esistenza nel Samsāra. Esiste però un tipo di Karma - che, effettivamente, "non è" Karma - che non è né positivo né negativo, quello che porta alla "liberazione" (Vimukti). Ogni manifestazione degli esseri senzienti possiede una certa quantità di "semi del Karma", che finché non verranno esauriti, li costringeranno a permanere nel ciclo del Samsāra. Questi "semi" sono frutto di azioni compiute da innumerevoli vite precedenti. Essi non possono diminuire ma possono essere distrutti con il raggiungimento dell'illuminazione (Bodhi). Con l'estinzione del debito karmico, l'essere non sarà più vincolato al Karma e quindi al Samsāra e potrà raggiungere il Nirvana. Il significato e il ruolo attribuito alla dottrina del Karma varia a seconda degli insegnamenti delle differenti scuole buddhiste. L'atto nel Buddhismo, e solo in esso, si identifica con l'intenzione (cetana) allorché un gesto compiuto o un pensiero elaborato (prayatna) senza intenzione non produce Karma, spietato o umano che sia. Al contrario, la sola intenzione che non si traduca in gesto o pensiero produce karma e poiché l'intenzione neutra (avyakrta) non può logicamente esistere essa è la sola a produrre karma secondo l'insegnamento buddhista. Condizionata dalla sola esistenza (bhava), la nascita (jati) delle intenzioni non è reversibile e niente di ciò che esiste (tranne il nirvana) che sia una divinità, una pratica rituale, un rimorso, un rimpianto o la morte potrà impedire che se ne formi il frutto, che maturi e che si riversi sull'agente nelle condizioni determinate solo e solamente dall'atto medesimo. Per cui l'implacabile responsabilità personale va ricondotta sempre alle vite precedenti per una piena comprensione ed eventualmente distruzione degli atti medesimi, siano essi positivi (kusala) o negativi (akusala).

domenica 15 luglio 2012

KIERKEGAARD


Kierkegaard Sören Aabye, filosofo danese (Copenaghen 1813 – 1855). Profondamente segnato dall'educazione di un padre austero e devoto e dalla rottura del fidanzamento con Regina Olsen, medita sull'esistenza per arrivare a cambiare la propria. Kierkegaard intende la ricerca filosofica non solo come un'attività del pensiero, ma come una manifestazione di vita, per cui la sua esistenza tormentata e le sue polemiche con la Chiesa protestante si riflettono nella sua opera, che fu molto copiosa e pubblicata sotto pseudonimi diversi. Egli scrisse: Il concetto dell'ironia (1841), Il diario di un seduttore , compreso originariamente in Aut-Aut (1843), Timore e tremore (1843), La ripetizione (1843), Gli stadi sul cammino della vita (1845), di cui in italiano è tradotta solo una parte dal titolo In vino veritas , un diario dal titolo Colpevole -non colpevole , una lettera al lettore sotto lo pseudonimo di Fratel Taciturnus, nella quale viene enunciata la teoria dei tre stadi dell'esistenza (estetico, etico, religioso); Briciole di filosofia (1844), Il concetto dell'angoscia (1846), Postilla conclusiva non scientifica (1846), La malattia mortale (1849). Il titolo di una delle opere fondamentali, Aut-Aut , richiama alla posizione di Kierkegaard nei confronti della filosofia hegeliana, nell'ambito della quale bisogna respingere il concetto di conciliazione degli opposti, I 'et-et , in quanto ci sono alternative che non sono conciliabili, ma si escludono l'una con l'altra: le alternative possibili della vita non si lasciano conciliare nella continuità di un unico processo nel quale agisce tutta la realtà. La realtà non è lo Spirito assoluto nel quale gli opposti si conciliano: è l'uomo, il “me”, per il quale si presenta continuamente l'esigenza di una scelta tra due possibilità inconciliabili, per cui il realizzarsi dell'una esclude il realizzarsi dell'altra e la nullifica. Questo concetto di possibile, che Kierkegaard riconduce alle dimensioni esistenziali, e toglie al dominio della logica, è nuovo nella filosofia moderna, ed ha il suo antecedente solo nella filosofia platonica. La possibilità come categoria dell'esistenza umana è sempre possibilità che sì o possibilità che no; nella dimensione logica invece il possibile ha un senso positivo, perché è semplicemente “ il non impossibile ”. Kierkegaard ne mette in luce l'aspetto negativo, paralizzante: è sempre possibile scegliere fra due possibilità, ma tanto l'una che l'altra, comunque io scelga, possono e non possono realizzarsi. È un'alternativa fra l'essere e il nulla, e l'atto della scelta ha sempre valore esistenziale, in quanto solo dopo la scelta si saprà se la possibilità è reale o no. Prima non c'è alcuna garanzia, il nulla è la minaccia costante sull'esistenza umana. Il sentimento che scaturisce dalla consapevolezza del carattere nullificante della scelta è tipico dell'uomo, e caratterizza i suoi rapporti col mondo esterno: è il sentimento dell'angoscia. Uno degli elementi originali di Kierkegaard consiste nell'avere posto in luce l'uomo come singolo essere, solo con se stesso. Malgrado polemizzi con Hegel, Kierkegaard non si pone al di fuori dell'hegelismo, perché si avvale di concetti hegeliani, in quanto si esprime in termini di “ assoluto ”, “ totalità ”, “ finito-infinito ”, “ essere-nulla ”, anche se essi vengono utilizzati in una prospettiva antihegeliana. L'opera principale di Kierkegaard: “Aut-Aut” ha come oggetto il passaggio dallo stadio estetico della vita allo stadio etico. Colui che vive in una dimensione estetica si affida all'immaginazione senza progettare la sua esistenza oltre l'attimo immediato: esempio di questo stile di vita è Don Giovanni, di cui Kierkegaard parla a proposito di Mozart, o Giovanni, il protagonista del “Diario di un seduttore”. Il seduttore sembra realizzare una sorta di destino eroico, anche la sua fine è negativa, poiché questa fine è l'ultimo atto di un'esistenza vissuta in una dimensione estetica assoluta, in cui non c'è nulla di banale. L'analisi di opere di teatro in cui spiccano figure femminili (Margherita nel Faust, Elvira nel Don Giovanni mette in risalto l'amore come centro dell'esistenza estetizzante, la quale conduce necessariamente all'infelicità poiché ha in sé i germi di una crisi che la destina al naufragio. Non occorre porsi su un piano etico o religioso per condannare questo tipo di esistenza: la condanna è interna, perché la vita senza storia, senza ripetizione, senza impegno non può condurre che alla noia e al disprezzo della vita: alla disperazione. L'estetismo è distruzione della personalità, e non è libertà ma schiavitù perché pone il suo interesse in ciò che non dipende dall'esteta, cioè nel piacere, che gli viene comunque da altri. La disperazione è l'ansia di una vita diversa, un'altra alternativa possibile. Non bisogna sottrarsi alla disperazione, ma accettarla, viverla fino in fondo, sceglierla. Se l'esteta avrà il coraggio di compiere una scelta alternativa, perverrà alla vita etica. Anche in essa l'amore è un fatto centrale, ma è realizzato non nell'attimo, ma nella continuità, nella ripetizione, all'interno dell'istituzione del matrimonio. Caratteristica della vita etica è la scelta che l'uomo fa di sé stesso, scelta assoluta, di tutto sé stesso, in quanto chi accetta l'eticità della vita imprime un indirizzo stabile e costante alla propria esistenza, e sta a lui, non al caso, fare progetti e realizzarli. Egli sceglie la propria personalità; sostituendola al capriccio, e si pone in rapporto con gli altri, si riallaccia all'umanità. Scegliendosi, l'uomo si dà una storia che non è tutta positiva, ha pure momenti crudeli, errori, di cui egli si pente senza poterli annullare. In questo concetto del pentimento comincia a rivelarsi l'altra scelta, quella che è al di là dell'etica: lo stadio religioso, argomento di “ Timore e tremore ”. Kierkegaard, analizzando il sacrificio di Abramo, che è conforme al volere di Dio ma contrario alle leggi dell'etica, prospetta il passaggio dallo stadio etico a quello della fede, in cui non c'è garanzia umana a convalidare la scelta, e in cui la condizione umana si configura nella solitudine più deserta della coscienza, che è in rapporto unicamente con Dio. Nulla garantisce questo passaggio, che non è un passaggio ma un salto, e non si fonda sulla ragione, come la scelta dell'etica, ma sulla fede. L'angoscia, la disperazione, il sentimento dell'assurdo, caratterizzano questo salto nel buio: l'uomo che sceglie la fede fa una scommessa sull'assurdo ed è assolutamente solo davanti a Dio.


domenica 8 luglio 2012

ESISTENZIALISMO

La domanda centrale delle problematiche esistenzialiste è: “che cos’è l’essere?”. Essa può essere posta in altri modi: cos’è che determina la nostra esistenza? Perché c’è l’uomo invece del nulla? L’essere è un concetto unico da cui derivano tutte le sue manifestazioni (l’uomo, le cose, ecc.)? Heidegger, che per primo si pose compiutamente la domanda, intuì che diversamente da quanto affermato in tutta la storia della metafisica l’essere non va confuso con l’ente: in altre parole, l’essere non è Dio o le Idee platoniche, concetti ontologici, manifestazioni fisiche più che metafisiche. L’essere è un concetto e non può essere oggettivato. Il filosofo Gabriel Marcel pose l’accento sul fatto che l’esistenza non è un problema, bensì un mistero. Un problema è infatti un qualcosa che si pone davanti a noi come un ostacolo e di cui noi possiamo perlomeno delimitarne la portata e quindi comprenderlo in via di massima. L’esistenza non si pone di fronte a noi, è anche in noi stessi, ci penetra, e dunque noi siamo sia soggetti che oggetti della domanda “che cos’è l’essere?”. Heidegger spiegava questo concetto in questo modo: di ogni cosa noi possiamo dire cos’è categorizzandola, possiamo farla rientrare in un insieme (il cane è parte dell’insieme ‘animali’, per intenderci). Ma il concetto di essere non può venire categorizzato, perché esso stesso è l’insieme più ampio di tutti, di cui tutti gli altri insiemi fanno parte. Il fatto quindi che l’essere è sia in noi che fuori di noi non ci permette di dare mai una risposta definitiva al problema (o, meglio, al mistero). Questa questione è meglio marcata nelle riflessioni di Sartre, il quale alla domanda dà tre risposte: la prima, la più evidente, è che l’essere sia costituito dall’insieme di tutti gli esseri - cose e persone - presenti nel contesto spazio-temporale in cui viviamo; la seconda è che l’essere sia quello che Sartre chiama il per-sè, cioè la nostra coscienza, il nostro io che si pone come altro rispetto al resto del mondo, è soggetto e non oggetto; infine può essere in-sè, ossia l’essere nelle cose e nei fenomeni che ci appaiono, negli oggetti che ci circondano, a cui però diamo un senso noi, e quindi in qualche modo derivano da noi. Nessuna di queste tre è una risposta completa: l’essere, per Sartre, è come se si manifestasse in parte in ogni cosa ma si cela sempre nella sua compiutezza. Heidegger e Jaspers indicarono tuttavia una semi-risposta al quesito. Il fatto che noi ci poniamo la domanda “che cos’è l’essere?”, il fatto che andiamo alla ricerca di una risposta e indaghiamo la realtà nel cercarla è già di per sè una risposta. Si può dire, quindi, che si è, si esiste nel momento in cui ci si pone la domanda “perché esisto?”, “che cosa significa esistere?”. In questo modo, infatti, noi esistiamo perché il significato etimologico di esistere è ex-sistere, cioè in latino “essere fuori da”: in qualche modo cerchiamo di uscire fuori da noi stessi e guardare l’essere come qualcosa di altro, che non ci appartiene, lo analizziamo “fuori da noi” e questo è già un primo passo.

lunedì 2 luglio 2012

DRUIDI

Le notizie che abbiamo sui druidi differiscono a seconda degli autori e delle epoche, ma più che contraddirsi esse si completano. I druidi erano essenzialmente dei sacerdoti che presiedevano alle cerimonie del culto e soprattutto celebravano i sacrifici. Scandivano il tempo secondo atavici rituali. Tutta la concezione del tempo, per i Celti, era regolata sulle fasi della luna, patrona della fecondità della terra e delle donne, basata su quattro grandi eventi stagionali. Tutte le conoscenze e i segreti erano appannaggio dei druidi. E' possibile che all'inizio, essi formassero un'unica classe ma poi la loro organizzazione si sviluppò, divenne più complessa e perciò si articolò in classi diverse. Una di queste riuniva in Gallia i Vates, specializzati in sociologia, in storia e in scienze naturali, per finire, vi furono ai margini della collettività druidica, i Bardes, sorta di poeti-cantastorie ufficiali della società celtica e nello stesso tempo, cronisti. Infatti, in un'epoca in cui non esistevano i giornali, gli avvenimenti erano divulgati da interminabili cantilene che il popolo ascoltava con passione. Nella gerarchia irlandese, invece, a fianco dei druidi, compaiono i Filid, che svolgevano in qualche modo le funzioni scientifiche e poetiche ed erano quanto a dignità uguali ai druidi, nonché disposti secondo una rigida gerarchia. Non a caso la parola 'druido' significa 'molto saggio'. Gli antichi avevano sentito parlare di loro fin dal IV sec. a.C. e avevano un profondo rispetto per le loro conoscenze e la loro effettiva saggezza. Tuttavia, non si ha alcun testo che riassuma l'insegnamento dei druidi, ma sappiamo che, senza essere esoterico o segreto, esso era riservato agli allievi delle loro scuole, specie relative a seminari agresti, lontani dall'agitazione del mondo e frequentati soprattutto dai figli dell'aristocrazia. Com'è ben noto, la quercia per i druidi era particolarmente sacra, poiché vi si raccoglieva il vischio. I boschi, più ancora dei laghi e dei fiumi, erano luoghi di presenza divina. Il bosco era a tal punto parte integrante della cultura dei Celti che per loro non era possibile dissociarlo dagli sforzi per abbattere il nemico. Per i Romani abbattere i santuari forestali dei Celti era importante quanto sconfiggerne le truppe sul campo di battaglia. La visione della vita che i Celti acquisivano per mezzo dell'insegnamento druidico, l'assenza di paura per la morte e dell'aldilà, non si spiegherebbero senza una credenza radicata nell'immortalità dell'anima e nella possibilità per l'uomo di conoscere le forme di esistenza più diverse. Infatti il loro amore per la vita in tutte le sue manifestazioni, la loro apertura verso tutte le esperienze, rivela in loro il senso dell'unità del cosmo, più di duemila anni prima che la scienza moderna, con tutte le sue tecniche, avesse solo cominciato a supporla. I druidi rappresentavano il cardine dell'unità dell'impero spirituale celtico, i promulgatori dell'armonia e della sapienza, i signori degli elementi (acqua, fuoco, vento, terra). Fu proprio per questo che i conquistatori romani arrivarono a sopprimerne la casta e proibire le loro riunioni e il culto, per colpire al cuore la società celtica.