Se
so che devo morire non capisco perché devo essere felice. La differenza tra
l'uomo e l'animale sta tutta in questa consapevolezza, per cui l'infelicità è
l'elemento costitutivo della condizione umana, che un tempo le religioni e oggi
le psicoterapie o i ritrovati farmacologici cercano inutilmente di
narcotizzare. Ma si può davvero pensare di reperire la felicità attraverso la
negazione del tratto caratteristico della condizione umana? E allora, come
scrive opportunamente Edoardo Boncinelli in perché siamo infelici
"L'infelicità non è un accidente, è un destino". Oltre a Boncinelli,
che affronta il problema dal punto di vista genetico, il libro ospita gli
interventi di eminenti psichiatri e psicoanalisti quali Maurizio Andolfi,
Vittorino Andreoli, Eugenio Borgna, Bruno Callieri e Paolo Crepet che cura
questa raccolta dei saggi, il cui intento è di smascherare i falsi rimedi che
ogni giorno ci vengono proposti da quanti traggono profitto dall'infelicità
diffusa, per vendere quelle che già Eschilo chiamava "cieche speranze
(thuphlás elpídas)". Con la chiarezza dello scienziato che non si fa
incantare dalle cieche speranze, Boncinelli ci avverte che la natura ci genera
per la continuità della specie e non per la felicità dell'individuo. Ma
affinché gli individui non si demotivino una volta raggiunta questa
consapevolezza, la natura provvede a quella serie di inganni che sono i
desideri dell’individuo, i suoi progetti, i suoi investimenti, i suoi
entusiasmi, particolarmente vividi nell'età giovanile che è poi la stagione più
feconda per la generazione. "Resisteremmo infatti fino all'età
riproduttiva - il traguardo che interessa alla natura - se non avessimo questa
sorta di imbroglio da bambini, che non ci fa vedere perfettamente le asperità
del mondo?" - si domanda Boncinelli e risponde: "Sono sicuro di no.
Abbiamo una fase transitoria, ma lunga, di minore lucidità e ringraziamo Iddio.
Altrimenti sono convinto che molta gente abbandonerebbe questo mondo ben prima
della morte naturale". A questa infelicità di base, che possiamo chiamare
"biologica" se ne aggiunge una "culturale", determinata dal
fatto che l'individuo promuove desideri, progetti, investimenti che, scrive
sempre Boncinelli, sono "una molla alla base di tutta la civiltà e di
tutta l'evoluzione culturale, ma anche una palla al piede, uno sconforto, uno
sconcerto, un amplificare l'infelicità su tutta la vita", perché i nostri
desideri sono quasi sempre sproporzionati alla nostra capacità di
realizzazione, e lo scarto tra il desiderio e la sua realizzazione è la fonte
di una nuova infelicità. Su questo tema ritornano le bellissime pagine di
Eugenio Borgna che, dopo aver esaminato tutte le forme patologiche di felicità
e di infelicità, e i rimedi farmacologici che attutiscono i sintomi ma non
danno un orizzonte di senso, affonda radicalmente lo sguardo sulla condizione
tragica dell’uomo che non può vivere senza una produzione di senso, in vista
della morte che è l'implosione di ogni senso. Colta nella sua dimensione
abissale, questa infelicità non è curabile con i farmaci, ma è possibile
attenuarla attraverso un'intensificazione delle relazioni interpersonali, da
quelle affettive a quelle di cura, recuperando quel tratto costitutivo dell’essenza
dell’uomo che la natura prevede come "animale sociale". Ma che tipo
di società è quella che ci circonda? Una società che ci riempie di oggetti da
consumare, scrive Paolo Crepet, che stanno al posto di relazioni mancate. Una
società che misura la felicità sui redditi invece che sulla circolazione dei
sentimenti, fino al punto, sempre in nome dei redditi, di fare dell'infelicità un
business. Infatti, scrive Crepet: "assistenti sociali, religiosi,
psicologi, psicoterapeuti, psichiatri, filosofi, organizzazioni di
volontariato, farmacologi, perfino le prostitute vedrebbero i loro ricavi
ridursi se, d'un colpo o per magia, la maggior parte degli infelici cessassero
di esserlo". Per non parlare poi del controllo sociale che trae un
indiscutibile vantaggio dall'infelicità: "perché è più facile controllare
persone rassegnate e impotenti, piuttosto che vitali e ideative".
Sull'infelicità collettiva vivono anche le religioni che "promettono una
felicità post mortem", garantendosi in tal modo la sopportazione dell'infelicità
su questa terra, fino a indurre a vivere i momenti di felicità con un mal
celato senso di colpa, perché assaporare la felicità su questa terra potrebbe
ridurre la fede nell'al di là. Ma, osserva opportunamente Crepet, non meno
insidioso è il messaggio sotteso a ogni forma di pubblicità che, per invitarci
a consumare, ci dice Life is now (la vita è adesso). E se la religione si
alimenta di infelicità proiettando la felicità in un altro mondo, la cultura
del nostra società, concentrandosi sul presente, esclude che il futuro della
vita individuale e sociale possa essere migliore di quello attuale. Ma se
questa è la condizione umana, non è che per vivere bisogna frequentare e almeno
in parte corteggiare la nostra follia? Questo è il messaggio dello psichiatra
Vittorino Andreoli secondo il quale: "Per vivere bisogna essere fuori
dalla realtà, essere dunque come i folli che l'hanno dimenticata, per poter
sopportare di stare al mondo e di continuare a essere uomini, uomini senza
senso, perché di fatto la condizione umana non ne ha alcuno".
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