Epicuro ha
diciott’anni quando, con la morte di Alessandro Magno (323 a.C.), comincia
l’età ellenistica. La cultura greca si diffonde nell’universo allora noto in
Grecia. Contemporaneamente l’impero si sgretola, la “pòlis” si dissolve, la
vita pubblica degenera e il cittadino individualizza. Epicuro sviluppa allora
un pensiero sulla ricerca della felicità come medicina contro il dolore e la
morte. L’etica edonistica di Epicureo, contenuta nella Lettera a Meneceo, va di
pari passo con il disimpegno politico. Una vita nascosta diviene condizione
necessaria per una saggezza capace di scegliere fra i piaceri. La lettera sulla
felicità di Epicuro è un farmaco contro l’angoscia: “Chi sostiene che non è
ancora giunto il momento di dedicarsi alla conoscenza della felicità, o che
ormai è troppo tardi, è come se andasse dicendo che non è ancora il momento di
essere felice, o che ormai è passata l’età. Ecco che da giovani come da vecchi
è giusto che noi ci dedichiamo a conoscere la felicità. Per sentirci sempre
giovani quando saremo avanti con gli anni in virtù del grato ricordo della
felicità avuta in passato, e da giovani, irrobustiti in essa, per prepararci a
non temere l’avvenire”. La felicità è l’essenza del divino: “Prima di tutto
considera l’essenza del divino materia eterna e felice, come rettamente suggerisce
la nozione di divinità che ci è innata. Non attribuire alla divinità niente che
sia diverso dal sempre vivente o contrario a tutto ciò che è felice, vedi
sempre in essa lo stato eterno congiunto alla felicità”. La morte non va
fuggita né invocata: “La morte, il più atroce dunque di tutti i mali, non
esiste per noi. Quando noi viviamo la morte non c’è, quando c’è lei non ci
siamo noi. Non è nulla né per i vivi né per i morti. Per i vivi non c’è, i
morti non sono più. Invece la gente ora fugge la morte come il peggior male,
ora la invoca come requie ai mali che vive”. I desideri vanno esaminati e non anzitutto esauditi: “Una ferma conoscenza dei
desideri fa ricondurre ogni scelta o rifiuto al benessere del corpo e alla
perfetta serenità dell’animo, perché questo è il compito della vita felice, a
questo noi indirizziamo ogni nostra azione, al fine di allontanarci dalla
sofferenza e dall’ansia”. La ricerca del piacere deve lasciare spazio alla
libertà: “Perché non sono di per se stessi i banchetti, le feste, il godersi
fanciulli e donne, i buoni pesci e tutto quanto può offrire una ricca tavola
che fanno la dolcezza della vita felice, ma il lucido esame delle cause di ogni
scelta o rifiuto, al fine di respingere i falsi condizionamenti che sono per
l’animo causa di immensa sofferenza”. Gli
dei sono preferibili al destino immutabile: “Piuttosto che essere schiavi del
destino dei fisici, era meglio allora credere ai racconti degli dei, che almeno
offrono la speranza di placarli con le preghiere, invece dell’atroce,
inflessibile necessità”.
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