giovedì 19 aprile 2012

EPICURO: LETTERA SULLA FELICITA'

Epicuro ha diciott’anni quando, con la morte di Alessandro Magno (323 a.C.), comincia l’età ellenistica. La cultura greca si diffonde nell’universo allora noto in Grecia. Contemporaneamente l’impero si sgretola, la “pòlis” si dissolve, la vita pubblica degenera e il cittadino individualizza. Epicuro sviluppa allora un pensiero sulla ricerca della felicità come medicina contro il dolore e la morte. L’etica edonistica di Epicureo, contenuta nella Lettera a Meneceo, va di pari passo con il disimpegno politico. Una vita nascosta diviene condizione necessaria per una saggezza capace di scegliere fra i piaceri. La lettera sulla felicità di Epicuro è un farmaco contro l’angoscia: “Chi sostiene che non è ancora giunto il momento di dedicarsi alla conoscenza della felicità, o che ormai è troppo tardi, è come se andasse dicendo che non è ancora il momento di essere felice, o che ormai è passata l’età. Ecco che da giovani come da vecchi è giusto che noi ci dedichiamo a conoscere la felicità. Per sentirci sempre giovani quando saremo avanti con gli anni in virtù del grato ricordo della felicità avuta in passato, e da giovani, irrobustiti in essa, per prepararci a non temere l’avvenire”. La felicità è l’essenza del divino: “Prima di tutto considera l’essenza del divino materia eterna e felice, come rettamente suggerisce la nozione di divinità che ci è innata. Non attribuire alla divinità niente che sia diverso dal sempre vivente o contrario a tutto ciò che è felice, vedi sempre in essa lo stato eterno congiunto alla felicità”. La morte non va fuggita né invocata: “La morte, il più atroce dunque di tutti i mali, non esiste per noi. Quando noi viviamo la morte non c’è, quando c’è lei non ci siamo noi. Non è nulla né per i vivi né per i morti. Per i vivi non c’è, i morti non sono più. Invece la gente ora fugge la morte come il peggior male, ora la invoca come requie ai mali che vive”. I desideri vanno esaminati e non anzitutto esauditi: “Una ferma conoscenza dei desideri fa ricondurre ogni scelta o rifiuto al benessere del corpo e alla perfetta serenità dell’animo, perché questo è il compito della vita felice, a questo noi indirizziamo ogni nostra azione, al fine di allontanarci dalla sofferenza e dall’ansia”. La ricerca del piacere deve lasciare spazio alla libertà: “Perché non sono di per se stessi i banchetti, le feste, il godersi fanciulli e donne, i buoni pesci e tutto quanto può offrire una ricca tavola che fanno la dolcezza della vita felice, ma il lucido esame delle cause di ogni scelta o rifiuto, al fine di respingere i falsi condizionamenti che sono per l’animo causa di immensa sofferenza”.  Gli dei sono preferibili al destino immutabile: “Piuttosto che essere schiavi del destino dei fisici, era meglio allora credere ai racconti degli dei, che almeno offrono la speranza di placarli con le preghiere, invece dell’atroce, inflessibile necessità”.




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