giovedì 17 gennaio 2013

PAOLO CREPET: PERCHE' SIAMO INFELICI

Se so che devo morire non capisco perché devo essere felice. La differenza tra l'uomo e l'animale sta tutta in questa consapevolezza, per cui l'infelicità è l'elemento costitutivo della condizione umana, che un tempo le religioni e oggi le psicoterapie o i ritrovati farmacologici cercano inutilmente di narcotizzare. Ma si può davvero pensare di reperire la felicità attraverso la negazione del tratto caratteristico della condizione umana? E allora, come scrive opportunamente Edoardo Boncinelli in perché siamo infelici "L'infelicità non è un accidente, è un destino". Oltre a Boncinelli, che affronta il problema dal punto di vista genetico, il libro ospita gli interventi di eminenti psichiatri e psicoanalisti quali Maurizio Andolfi, Vittorino Andreoli, Eugenio Borgna, Bruno Callieri e Paolo Crepet che cura questa raccolta dei saggi, il cui intento è di smascherare i falsi rimedi che ogni giorno ci vengono proposti da quanti traggono profitto dall'infelicità diffusa, per vendere quelle che già Eschilo chiamava "cieche speranze (thuphlás elpídas)". Con la chiarezza dello scienziato che non si fa incantare dalle cieche speranze, Boncinelli ci avverte che la natura ci genera per la continuità della specie e non per la felicità dell'individuo. Ma affinché gli individui non si demotivino una volta raggiunta questa consapevolezza, la natura provvede a quella serie di inganni che sono i desideri dell’individuo, i suoi progetti, i suoi investimenti, i suoi entusiasmi, particolarmente vividi nell'età giovanile che è poi la stagione più feconda per la generazione. "Resisteremmo infatti fino all'età riproduttiva - il traguardo che interessa alla natura - se non avessimo questa sorta di imbroglio da bambini, che non ci fa vedere perfettamente le asperità del mondo?" - si domanda Boncinelli e risponde: "Sono sicuro di no. Abbiamo una fase transitoria, ma lunga, di minore lucidità e ringraziamo Iddio. Altrimenti sono convinto che molta gente abbandonerebbe questo mondo ben prima della morte naturale". A questa infelicità di base, che possiamo chiamare "biologica" se ne aggiunge una "culturale", determinata dal fatto che l'individuo promuove desideri, progetti, investimenti che, scrive sempre Boncinelli, sono "una molla alla base di tutta la civiltà e di tutta l'evoluzione culturale, ma anche una palla al piede, uno sconforto, uno sconcerto, un amplificare l'infelicità su tutta la vita", perché i nostri desideri sono quasi sempre sproporzionati alla nostra capacità di realizzazione, e lo scarto tra il desiderio e la sua realizzazione è la fonte di una nuova infelicità. Su questo tema ritornano le bellissime pagine di Eugenio Borgna che, dopo aver esaminato tutte le forme patologiche di felicità e di infelicità, e i rimedi farmacologici che attutiscono i sintomi ma non danno un orizzonte di senso, affonda radicalmente lo sguardo sulla condizione tragica dell’uomo che non può vivere senza una produzione di senso, in vista della morte che è l'implosione di ogni senso. Colta nella sua dimensione abissale, questa infelicità non è curabile con i farmaci, ma è possibile attenuarla attraverso un'intensificazione delle relazioni interpersonali, da quelle affettive a quelle di cura, recuperando quel tratto costitutivo dell’essenza dell’uomo che la natura prevede come "animale sociale". Ma che tipo di società è quella che ci circonda? Una società che ci riempie di oggetti da consumare, scrive Paolo Crepet, che stanno al posto di relazioni mancate. Una società che misura la felicità sui redditi invece che sulla circolazione dei sentimenti, fino al punto, sempre in nome dei redditi, di fare dell'infelicità un business. Infatti, scrive Crepet: "assistenti sociali, religiosi, psicologi, psicoterapeuti, psichiatri, filosofi, organizzazioni di volontariato, farmacologi, perfino le prostitute vedrebbero i loro ricavi ridursi se, d'un colpo o per magia, la maggior parte degli infelici cessassero di esserlo". Per non parlare poi del controllo sociale che trae un indiscutibile vantaggio dall'infelicità: "perché è più facile controllare persone rassegnate e impotenti, piuttosto che vitali e ideative". Sull'infelicità collettiva vivono anche le religioni che "promettono una felicità post mortem", garantendosi in tal modo la sopportazione dell'infelicità su questa terra, fino a indurre a vivere i momenti di felicità con un mal celato senso di colpa, perché assaporare la felicità su questa terra potrebbe ridurre la fede nell'al di là. Ma, osserva opportunamente Crepet, non meno insidioso è il messaggio sotteso a ogni forma di pubblicità che, per invitarci a consumare, ci dice Life is now (la vita è adesso). E se la religione si alimenta di infelicità proiettando la felicità in un altro mondo, la cultura del nostra società, concentrandosi sul presente, esclude che il futuro della vita individuale e sociale possa essere migliore di quello attuale. Ma se questa è la condizione umana, non è che per vivere bisogna frequentare e almeno in parte corteggiare la nostra follia? Questo è il messaggio dello psichiatra Vittorino Andreoli secondo il quale: "Per vivere bisogna essere fuori dalla realtà, essere dunque come i folli che l'hanno dimenticata, per poter sopportare di stare al mondo e di continuare a essere uomini, uomini senza senso, perché di fatto la condizione umana non ne ha alcuno".